solitudine

Mi sento un po’ solo e vi do la buona notte.

Buona sera a todos. Visto che mi sento un po’ solo, pubblico questo post un po’ patetico e sciocchino, ma anche inutile, che non da granché e che ha poco senso. Ma fa lo stesso. Stasera va così.

Buona notte e dolci sogni a voi e alle persone a cui tenete. Se avete dei bambini, fate loro una carezza e dite che questa è la carezza di Michele, un blogger che scrive solo cose fondamentali, meravigliose e che vi cambiano la vita. Ih! Ih! Ih!

W l’amore! W la bellezza! W la Vita!

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alcune volte

Ho conosciuto molte scuole, forse troppe, essendo precario. Sono stato a contatto con i tipi umani più diversi tra loro e ho realizzato un catalogo di facce, vite, nevrosi, bontà, cattiverie, ecc. Ho conosciuto molti ragazzini e ragazzi, molti dei quali con tanto da dire e da dare, ho conosciuto dei colleghi. Due anni fa ho fatto l’insegnante di sostegno, l’ho raccontato su questo blog. Ho potuto conoscere meglio il mondo degli insegnanti, stando in classe ad assistere la bambina che mi era stata assegnata ed ho capito diversi aspetti di questa realtà. Ho visto un’insegnante femmina che ha interrotto la lezione di storia per 30 minuti per far recitare una poesia orrenda ad un ragazzino prepotente e maleducato che crede di essere Gassmann, ho visto una sedicente insegnante di tedesco che non spiegava la grammatica, ma distribuiva le stelline di carta. Aveva assegnato un po’ a casaccio degli esercizi di grammatica ai ragazzini, i quali chiamavano me per aiutarli a svolgere quanto da lei richiesto. Ero io l’unico insegnante di tedesco. Ho visto un’insegnante di musica che il 30 gennaio, dopo quasi due mesi, faceva suonare ancora Jingle Bells in un’aula gelida, con gli alunni tremanti. Ho visto dei ragazzini soli, senza una guida, senza un punto di riferimento, ho visto degli insegnanti incapaci, non tutti, per la verità. Ho visto degli insegnanti che hanno rinunciato ad insegnare, preferendo vivacchiare. Ho visto delle classi come navi senza nocchiero, per citare qualcuno.  C’ero io, insegnante, traduttore, competente e appassionato. La cosiddetta insegnante di tedesco mi disprezza, perché porto la giacca in classe, mi annoia e tocca a dei ragazzini di 12 anni gestire la situazione, scegliendo l’insegnante giusto. La cosiddetta insegnante di tedesco c’era rimasta malissimo fin dal momento in cui ci siamo conosciuti, perché non amava la presenza di un insegnante di tedesco durante le sue “lezioni”. Questi adulti mi hanno fatto un bel po’ schifo, ma anche tenerezza. Sono deboli, soli e indifesi. Sono vittime di loro stessi, vittime della loro trascuratezza, della loro approssimazione. Sono approssimativi anche nel vestirsi, brutti e sciatti. Fanno del male alla scuola, fanno del male a loro stessi.

 

falsità e solitudine

Mi capita di pensare a quella specie di rapporto che ho avuto con quella ragazza di cui vi ho scritto. Confesso che ho sempre avuto il sospetto che quella persona avesse secondi fini, però mi ascoltava un po’ e ne ero felice. A volte mi sento solo. Anche se ho persone che mi vogliono bene. Mi confidavo con lei. Poi ho avuto la conferma che quella persona si è comportata da falsa. Abbiamo chiuso i rapporti. Ogni tanto, quando sono da solo, la riempio di insulti tra me e me. Ma poi ragiono. Anche se era falsa, mi ha fatto sentire bene, anche se lo sapevo che c’era qualcosa che non andava. Io spero di non vederla mai più.

ma adesso basta

Sono solo in casa e un silenzio assordante mi devasta e distrugge. Sento che devo scrivere, per curarmi. Ho bisogno della parola, per frantumare il dolore. Il mio corpo è sempre stato in salute e da un po’ di tempo non risponde ai comandi. Vado in ospedale e faticano a capire cos’ho. Non so neanche io cosa ho di preciso. Qualcuno ha sospettato perfino che io fossi drogato. Non fumo nemmeno. Sono pieno di angoscia, paura e un senso di vuoto mi opprime. Ancora per qualche giorno non potrò fare sport. Ricomincio il 20, o almeno spero, dopo un mese. Vi prometto che smetterò presto, l’inverno dell’anima deve finire.

Non riesco nemmeno a piangere.

e se fosse/antefatto

Le riforme sono state fondamentali per l’Italia. Da 150 anni gli italiani aspettavano l’abolizione dell’elettività del senato, di importanza strategica, per far ripartire l’economia. Da 150 anni gli italiani aspettavano il cambiamento del sistema elettorale, in modo tale che una minoranza potesse dominare il parlamento. Da 150 anni gli italiani aspettavano la libertà di licenziamento, per potere risolvere il problema della disoccupazione. Finalmente le cose stavano andando splendidamente, solo qualche gufo avrebbe potuto sostenere il contrario.

Le scuole private avevano ottenuto finalmente la parità con quelle pubbliche, ma mancava un ultimo tassello. Per quale motivo una scuola privata avrebbe dovuto mantenere un legame, con un insegnante con il quale non c’era un buon rapporto. In Italia non c’era posto per tutti, a scuola non c’era posto per tutti. Le scuole avrebbero dovuto essere libere di concludere il rapporto con un insegnante, assicurandogli una fine dignitosa, con un solo colpo di pistola. Magari con un mitragliatore Uzi, pensava suor Pudibonda, accarezzando il proprio fucile.  Il premier disse che quella misura era una misura di sinistra. Troppe persone avevano voluto diventare insegnanti, disse, ci sono troppe persone che vivono male. Questo è il frutto di una mentalità di sinistra perdente e anacronistica. Non si possono ricollocare delle persone che ne sanno solo di scuola, disse. Bisogna assicurare loro una buona morte, una morte dignitosa. Il parlamento aveva approvato la legge in pochissimo tempo, con il plauso unanime della cosiddetta sinistra e della destra.

Sprecali, sprecali i tuoi passi, addomestica le tue solitudini. Sprecale, sprecale le tue lettere, butta parole, infila frasi. Sciogli il tuo tempo, slega queste notti incatenate dal rancore e falle diventare senso e falle diventare qualcosa che sembra pazienza.

Il giorno in cui mi hai ricordato chi sono c’era freddo e sole, luce e una sciarpa che cinge il collo, c’era un corridoio di una scuola brutta invaso di luce. Avevo gli occhi gonfi e le borse, gli sbadigli mi squassavano. W la santa stanchezza, w il santo sfinimento che ha accompagnato questa vita.

 

Stare dentro ad un’automobile, in un viaggio solitario. Quell’uomo percorreva le stesse strade tutte le mattine, per andare a lavorare. Cambiava solo la musica: aveva impostato la funzione random nel suo account spotify. De Gregori, Mozart, Guccini, gli AC/DC, ecc. Si fermava ai semafori e la sua attenzione era catturata dalle finestre e dai terrazzi, dai balconi. Pensava alle storie dentro a quelle finestre, pensava alle persone che si stavano alzando alle 7, a quelle che si erano già alzate, pensava ai pensionati che si alzano alle 5 e vanno a fare la spesa. Non riusciva a pensare a storie tristi, anche se sicuramente ce n’erano. Si sentiva un po’ in colpa, perché non ci pensava. Pensava a luci accese e ad occhi cisposi, a fiati pesanti e a passi lenti. Qualche anno prima era stato triste, vinto dalla paura. Un giorno era andato a fare un fine settimana in montagna quando sua mamma, la sua adorata mamma non stava tanto bene e lei era finita all’ospedale. Era andato a trovarla all’ospedale, lei sembrava debole, ma cercava di essere ottimista. Cercava lei di fargli coraggio. Sua madre era una donna anziana, saggia e buona. Le aveva detto, questo fine settimana non vado in montagna, rimango con te, e lei, no, no, ci devi andare, sei giovane, sei giovane. Era un po’ perplesso, ma al venerdì sera era partito. Il lunedì mattina sua madre era morta, da sola, senza il figlio accanto.

Per fortuna gli aveva lasciato del denaro, abbastanza denaro che lei aveva risparmiato in una vita di sacrifici, veniva da una famiglia povera. Il nostro non se la sentiva di lavorare. Alla mattina si alzava verso le 9, si vestiva con una camicia e un maglione, qualche volta non si faceva la barba. Andava al centro commerciale, faceva la spesa per se, poche cose, comprava il giornale e si metteva a sedere su una panchina. Nei giorni infrasettimanali, nei centri commerciali ci sono gli anziani, le casalinghe e i turnisti. Ci sono le persone sole come lui, sono quasi tutti anziani. Ma il nostro personaggio non è anziano, è un trentenne con le borse sotto gli occhi e la barba. I centri commerciali sono troppo simili tra loro. È difficile distinguere un centro commerciale italiano da uno inglese. I centri commerciali annullano le differenze. Se guardiamo Piazza della Signoria o Piazza Maggiore le cose cambiano. Nei centri commerciali è tutto indistinto. Nella panchina di fianco al nostro personaggio c’è un signore dai folti capelli bianchi e gli occhi azzurri, che si guarda attorno con l’aria un po’ smarrita. È un signore alto e corpulento. Scruta le persone che passano con aria curiosa, fino a quando i suoi occhi si illuminano: vede un ometto con i baffetti e la coppola e lo saluta cordialmente. Parlano di calcio. Il nostro protagonista spera che inizino a parlare di politica: in quella città si parlava spesso di politica, tutti avevano l’abitudine di parlare di politica, almeno fino a qualche anno prima. La destra difende i privilegiati, la destra è a favore dello status quo, la sinistra è a favore dei proletari. Come è possibile distinguere il bianco dal nero, quando è diventato tutto grigio? Il concetto di sinistra è diventato decisamente ridicolo, in mano a traditori e spergiuri sulla Costituzione e a figure ridicole, pseudo comuniste. L’idea del comunismo non è morta, perché c’è la contraddizione capitale-lavoro, ma dove sono i comunisti?

Il nostro protagonista è contento, i due signori nella panchina accanto a lui hanno iniziato a parlare di politica, l’omino con la coppola e i baffetti si è seduto accanto all’omone con i capelli bianchi folti e non sembra avere fretta. L’omino con la coppola ha un borsello, dal quale estrae il fatto quotidiano. Legge all’omone un articolo di Travaglio, con l’aria rapita. Il nostro protagonista ascolta i loro discorsi e cerca di pensare al futuro, al proprio futuro e quello degli altri, ma non riesce a pensarci. Riesce a pensare solo fine alle dieci e mezza, dieci e tre quarti massimo, quando andrà a prendere il caffè e a leggere i quotidiani poggiati sui tavolini. Aveva già letto il proprio quotidiano e voleva leggerne altri. La giornata era lunga, sembrava che non ci fosse la fine. Ci sono altri signori anziani e qualche trentenne con l’aria smarrita di chi ha, all’improvviso, troppo tempo libero. Sono i volti della crisi, i volti di chi ha perso il lavoro o è in cassa integrazione. Al bar del centro commerciale assumono camerieri e loro lasciano il curriculum, con poca speranza. Al negozio di abbigliamento assumono commessi part-time, la paga è di 500 euro al mese. Portano i curriculum, contenuti in una busta trasparente e vanno a sedersi al bar. Anche loro si meritano un caffè. Quel giovane moro, che ha portato il cv al bar e nel negozio di abbigliamento come gli altri due, è seduto di fianco al nostro protagonista ed è laureato in lettere. Ha fatto la tesi sulle Operette Morali. Chissà se quelli che sono laureati in lettere e hanno scritto la tesi sulle Operette Morali hanno una faccia, un’espressione che li distingue dagli altri. O forse quei ragazzi, che hanno appena consegnato i curriculum e ne hanno altri da consegnare, hanno la faccia di chi ha troppa strada davanti a sé.

Il nostro protagonista si sentiva libero, non aveva bisogno di lavorare. Quello che aveva in banca gli bastava per mantenersi in modo decente. Si sentiva libero? Al caffè di un centro commerciale, alle 11 del mattino? Decise che non si sarebbe fatto domande. Non era ancora il momento di andare a visitare la libreria, ci andava tutti i santi giorni, dopo pranzo. Guarda le casalinghe dal passo frenetico, che vengono a comprare le ultime cose per il pranzo e guarda i pensionati, che lentamente vanno verso le proprie case, dove le mogli hanno preparato loro il pasto. Il pensionato con la coppola saluta l’omone con i capelli bianchi folti e se va. L’omone con i capelli bianchi folti esce piano piano, sale su una Fiat Punto di venti anni fa. Ha uno stereo antidiluviano. Ascolta Al Bano Carrisi. Il nostro protagonista si avvia a passo lento verso la piadineria del centro commerciale, la piadina è bella spessa, la fanno artigianale, quasi come in Romagna, ma non certo come in quel chiosco a Cesenatico, sul porto canale. Da tanto tempo non andava a Cesenatico. Il giovane moro che ha fatto la tesi sulle Operette Morali è andato a fare la spesa nell’ipermercato, ha comprato una bottiglia di vino da un litro e mezzo, del pane in offerta speciale a 1 al chilo e del prosciutto confezionato. Esce dal centro commerciale e monta su una vecchia Vespa 50, molto rumorosa. Il centro commerciale si popola di facce nuove e di passi veloci. Ci sono impiegati in pausa pranzo dei paesi vicini, professionisti, persone in giacca e cravatta, donne in tailleur. Mangiano, chi mangia una pizza schifosa, secca e troppo salata, chi mangia l’ottima piadina che sta mangiando il nostro protagonista. Hanno tutti fretta, corrono quasi, hanno un’aria spiritata. Sembra quasi che non sappiano nemmeno dove stanno correndo. Al nostro protagonista viene un po’ d’ansia. Ma si ritiene anche contento di non essere come loro.

Pensa, vorrei scrivere un romanzo, addenta un boccone di piadina con lo squacquerone. Vorrei scrivere un romanzo, ma inserendo solo le cose che so. È inutile che scriva di ornitologia. Devo chiedermi se conosco approfonditamente qualcosa. Conosco l’arte, a spizzichi e bocconi, conosco la politica, conosco l’architettura, un po’. Conosco la musica, ma so appena leggere un pentagramma. Fino a quando ero all’università, approfondivo le cose, le toccavo nel profondo. Mi hanno insegnato tante idee e concetti, ma soprattutto ho imparato che i concetti hanno senso se li tocchi nel profondo, se riesci a viverli a pieno. Poi ho finito e ho imparato pezzi di molte cose e faccio fatica a rendermi conto chi sono. Faccio fatica a rendermi conto di che cosa sono. Poi penso che un momento di silenzio interiore e pausa, un momento di pausa da me stesso e dal mondo, sia importante. Ho bisogno di un momento in cui esco da me stesso e mi guardo da fuori. Mi guardo da fuori e vedo una persona genuina, senza sovrastrutture. Sono una persona candida, a volte troppo. So molte cose, perché sono una persona curiosa. Sono una persona entusiasta, che affronta le cose con uno spirito fanciullesco poco cambiato dalla vita. Molte persone captano il mio entusiasmo e si rendono conto della mia gioia quieta, a volte un po’ meno quieta. I maligni e i superficiali pensano che io sia triste, gli stronzi pensano che io sia stupidello. Io so di scuola, perché insegno da anni, perché ho imparato i tempi, perché conosco i ritmi, ma, soprattutto, io so di scuola, perché a scuola sono io. So di scuola, perché ho studiato, perché studio e ricerco, so di scuola, perché butto dentro me stesso.

Ogni giorno nel centro commerciale ha i suoi riti, finisce il rito del pranzo. Passano i manager, che mangiano insalatone orribili, ma anche crescioni con le erbette, passano gli studenti all’uscita della scuola che mangiano le schifezze ultrafritte e fanno sporco a terra, anche se le femmine stanno più attente. C’è un papà con la figlia, lei dimostra circa 12 anni, ma ha già un filo di trucco sugli occhi. Butta lo zaino in terra, dice qualche parola al padre e guarda il cellulare. Sono quasi le tre e se ne vanno. Ritornano le casalinghe a fare la spesa, ritornano gli anziani. Ritorna l’omone con i capelli folti e l’uomo con la coppola. L’uomo con la coppola offre il caffè all’amico, oggi tocca a lui. Il nostro protagonista va in libreria. Al martedì arrivano i libri nuovi. C’è una grande catena, che ha aperto una libreria in questo centro commerciale. Ci sono tutti i libri, le orrende stronzate commerciali e i libri impegnati, cosiddetti di sinistra. Ci sono anche i libri delle piccole case editrici, sono ben nascosti, perché sono scarsamente venduti. Il nostro protagonista ne trova sempre uno, lo prende e si mette a sedere su una poltroncina, all’interno della libreria. Ogni tanto prende qualche best seller, con aria un po’ diffidente. Il centro commerciale ha inghiottito tutto il resto, ha fatto il vuoto. Anche uno come il nostro protagonista, che ama leggere libri importanti, può essere soddisfatto. I commessi delle librerie dei centri commerciali sono giovani e poco esperti, qualcuno non sa nemmeno chi sia Saramago. Il nostro protagonista si sente trasportato in un altro mondo, quando legge. Capita a tanti, ma quando capita nella libreria di un centro commerciale è ancora più bello. Quando capita in una libreria di sinistra, come la definiscono, di un centro commerciale, uno come il nostro protagonista si sente ancora più soddisfatto. Una volta, prima che gli succedesse una disgrazia, anzi, LA disgrazia, non amava andare nei centri commerciali. Sono non-luoghi, mi piacciono le piazze, mi piacciono le stradine del mio quartiere, le strade del centro. Vado nelle librerie del centro, perché amo il mio centro storico, diceva. Poi è successa la disgrazia e il nostro protagonista non è più andato nelle librerie del centro. Per due giorni ha girato senza meta con la propria macchina, dopo la disgrazia. Poi ha saputo della filiale di quella grande catena di librerie, nel centro commerciale, qualche tempo dopo la disgrazia. E c’è andato un giorno, quando aveva molto freddo e si sentiva debole. Non aveva quasi mai avuto freddo e non si era quasi mai sentito debole, il nostro protagonista. Dentro al centro commerciale si era sentito al sicuro, fin dalla prima volta in cui c’era andato, qualche tempo dopo la disgrazia. Al centro commerciale non è mai troppo freddo o troppo caldo, al centro commerciale c’è sempre luce e si trova quasi sempre parcheggio. Al centro commerciale trovi tutto, compresi i libri di Saramago, anche se qualche commesso ignorante non sa chi sia. Il centro commerciale è uguale ovunque, dalle alpi al lilibeo, trovi le tagliatelle e gli arrosticini, il panforte e il parrozzo abruzzese. Trovi anche i prodotti dop, igp, e i presidi slow food. E così anche il radical chic è accontentato. Trovi anche qualche vino per intenditori, e così anche il sommelier, almeno un po’, è accontentato. Che bisogno c’è di andare altrove?

Si stava ponendo la stessa domanda anche il nostro protagonista, durante la lettura di un bellissimo romanzo, l’anno della morte di Ricardo Reis, di Saramago. Il nostro protagonista aveva conosciuto Saramago leggendo memoriale del convento. Saramago era diventato, per lui, come un amico, come tanti altri scrittori che aveva conosciuto. Avrebbe voluto invitarli a cena, magari a mangiare la piadina in quel centro commerciale, dove la facevano tanto buona, quasi come a Cesenatico, dove andava da bambino. Le ore passano e il nostro protagonista sembra non accorgersene. Non ha nessuno che lo aspetta a casa. Sta bene da solo. Se fosse per lui, non avrebbe neanche una casa, vivrebbe al centro commerciale, ma deve dormire qualche ora.

Le fabbriche e gli uffici chiudono e il centro commerciale si ripopola, caos, urla, frotte di carrelli che si dirigono dentro l’ipermercato. I pensionati hanno già comprato qualcosa, prima che arrivino le orde barbariche dei clienti della sera. Gli scaffali si svuotano presto, anche se non è il fine settimana e tutti si mettono in fila alle casse. Hanno comprato un sacco di roba, di cui molta superflua. Hanno impiegato un sacco di tempo, hanno consumato benzina, anche se sotto casa loro c’è il supermercato coop, raggiungibile a piedi. Il momento della massima ressa dura fino alle sette, poi cala. I pensionati vanno a casa. Resta una zingara dalla lunga gonna e dagli orologi di oro, qualche ubriacone si addormenta sulle panchine abbandonate dai pensionati. I pensionati mangiano presto, il nostro protagonista compra qualcosa per la cena. Va in palestra, la palestra è di fianco al centro commerciale, non serve neanche spostare la macchina. Il nostro protagonista corre per un’ora sul tapis roulant, ascolta la musica con gli auricolari, non parla con nessuno. Fa la doccia e va a casa. Mangia qualcosa, legge e va a letto,  alle 2330. Tutti i giorni, tranne il venerdì, tranne il sabato. Al venerdì sera si compra la pizza al centro commerciale, è bella calda e corre a casa a mangiarla. Da solo. Legge un libro e va a letto tardi, guarda poco la televisione. Al sabato sera compra le lasagne, dentro la rosticceria dell’ipermercato. Le preparano benissimo. Il protagonista di questa storia vede la gente che si affolla al venerdì sera e sente quel luogo meno suo. C’è troppa folla, poi, dalle sette e mezza in poi, rimane solo poca gente. Il protagonista di questa storia arriva al centro commerciale tardi, al sabato e alla domenica, anche alle 12. Gli piace riposare di più in quei giorni, come se avesse lavorato tutta la settimana. Il nostro protagonista non ha alcun bisogno di lavorare.

Il sabato e la domenica il centro commerciale è popolato da un’orda brulicante di donne, uomini, bambini e bambine, vociante e fastidiosa per il nostro protagonista, che non ama il fatto che quell’orda gli occupi la sua panchina preferita. Non gliela occupa sempre, ma molto spesso. Quella panchina è sacra per lui. E allora si siede ai tavolini del bar, ordina un caffè, un bicchiere d’acqua e rimane lì, fino al momento di andare in libreria, perché al pomeriggio legge e l’orda frequenta poco la libreria.

 

2

 

Occhi grandi e quasi sconfinati attraversano il soffitto di una camera da letto.  Sono azzurro cielo, né allegri, né tristi. Il soffitto è bianco. Alle pareti c’è un quadro che rappresenta delle case in collina.  Sono ormai le 9. Lei allunga un braccio per prendere il telecomando.  Ha freddo, il braccio è nudo. Prima era sotto le coperte. Accende la televisione. C’è un notiziario zeppo di gossip e con qualche notizia seria. Lei cerca di ascoltare le notizie serie con attenzione. Quella ragazza dorme tutte le mattine fino alle 9, non fa una mazza dalla mattina alla sera, perché ha dei soldi che le hanno lasciato i genitori. I suoi genitori hanno dei soldi, molti soldi. I suoi genitori sono degli orribili pezzi di merda, che credono di lavarsi la coscienza facendole bonifici. Lei si ricorda di avere mandato un po’ di curricula qualche anno prima e di avere presentato qualche domanda, ma non si ricorda quando e a chi. Sta sotto il piumone e indossa solo reggiseno e mutandine, sempre coordinati, anche se a casa non invita mai nessuno e non fa l’amore più con nessuno, da quando ha subito la disgrazia. Una volta ha pianto tanto, poco dopo avere subito la disgrazia. Ora è serena, in mutandine e reggipetto sempre, anche d’inverno, mentre uno sfigato canta una stupida canzone alla tv, accesa in continuazione. La mattina è piena di programmi per casalinghe, dove ci sono gossip e stronzate razziste. Lei accende subito la televisione, appena si sveglia, su quei canali con le trasmissioni idiote. Ma non ascolta tanto. Si alza, a piedi nudi va verso il bagno, prepara la colazione, fa la doccia, si mette in accappatoio, mangia con molta calma. Quando si è asciugata, si toglie l’accappatoio, rimanendo in slip e reggiseno. Lei è bassina, ben proporzionata, con i capelli castani ricci fino alle spalle. Ha i seni piccoli e turgidi, il sedere tondo è sporgente. Quando ha freddo si rimette sotto le coperte, fissando la televisione, gelato al cioccolato dolce un po’ salato, tu gelato al cioccolato. Una volta quella ragazza leggeva molto, da un po’ di tempo legge poco e distrattamente. Ha la testa altrove, su di noi l’amore è una favola, su di noi tu puoi volare, solo noi, solo noi, solo noi. Il campanello suona raramente, il postino non suona più neanche per le raccomandate, le firma lui, si è messo d’accordo con la ragazza. I vicini rompicoglioni hanno smesso di suonare da molto tempo. È sola, non mangia molto, ma mangia molto bene. Solo presidi slow-food, igp, dop, doc e compagnia bella. Ma come, non mangia ignobili porcate propagandate alla televisione?

Ogni giorno era uguale a casa di quella ragazza, il clima era sempre quello giusto per stare in mutandine e reggiseno, il guardaroba era sempre ben rifornito, anche se non usciva quasi mai. Alle 12 in punto pranzava, regolare come un orologio, anche se non aveva quasi mai niente da fare. Non scriveva, anche se aveva molti bloc-notes in casa. Aveva una casa ricca ed ordinata, con una camera da letto e un grande salone con lo schermo piatto 50 pollici. Quegli stronzi dei suoi genitori erano stati munifici, quando lei era andata ad abitare lì. Non l’avevano certo fatto per amore nei suoi confronti, se ne sbattevano di lei. L’avevano fatto per ostentare la loro ricchezza, il loro benessere. Lei aveva chiesto loro di non telefonarle, loro avevano obbedito, perché a loro non fregava niente di lei. I pomeriggi erano tutti uguali, su di noi nemmeno una nuvola, italia amore mio, tu non avevi fatto niente, voglio calore sulla mia pelle, ecc. ecc. alle sei di sera iniziava a vestirsi, gonna e tacchi alti, pantaloni e tacchi alti, tubini. Per andare dove, dal signor Ettore, proprietario del negozio di alimentari vicino a casa, il cui negozio era una delle sue pochissime mete giornaliere. Era sempre ben truccata e ben pettinata, il signor Ettore era molto emozionato, ogni volta che incontrava quella bella ragazza taciturna e gentile. Comprava il cibo per il giorno successivo, solo il cibo per il giorno successivo. Faceva così tutti i giorni, tranne il sabato, quando doveva fare la spesa per due giorni. Andava sempre a quell’ora, quando le stronze impiccione del suo condominio erano tutte intente a preparare la cena, per i loro mariti orridi e puzzolenti. Tornava a casa dopo una ventina di minuti, con una sporta leggera, che conteneva sempre qualcosa di buono, culatello di zibello, hamburgher di fassona, una bottiglia di Chartreuse. Il signor Ettore sembrava Eataly. Tornava a casa, si spogliava, indossava una calzamaglia nera, un top, un giubbotto nei mesi freddi, saliva in automobile, che guidava pochissimo e andava ad allenarsi nella palestra a 5 minuti di macchina da casa. 1 ora di tapis roulant, dal lunedì al venerdì, con gli auricolari nelle orecchie e i capelli legati in uno chignon. Ma non ascoltava le puttanate, che sentiva nei programmi stupidi. Solo ed esclusivamente AC/DC. Al sabato sera, anche se cenava sempre da sola, apriva una bottiglia di champagne, che comprava dal signor Ettore. E se la finiva tutta. Reggeva bene l’alcool.

Nel giro di poco tempo qualcosa l’avrebbe sconvolta.

 

3

 

Il mondo è malato di opinioni, opinioni proferite da persone che non sanno nulla di nulla. Tanti vogliono parlare di tutto, al bar come su facebook.

Cercare la solitudine vuol dire cercare di proteggersi, cercare la solitudine in un centro commerciale sembra una contraddizione. Il centro commerciale è un luogo di suoni, piuttosto, di rumori. Il volume è spesso troppo alto, le luci sono spesso troppo vivaci. Il centro commerciale è anche un guscio. In mezzo al caos non si percepisce nulla o quasi, le voci si mescolano, i suoni si accavallano in un tutto indistinto.

Nei centri commerciali, nei supermercati, il natale incomincia ad agosto. Ad agosto ci sono i panettoni. Quando fuori ci sono 35 gradi, il 7 agosto, quando la gente va in spiaggia, ci sono i panettoni. Il calendario ha un nuovo senso. Ha un senso il calendario? Il nostro protagonista non compra il panettone in agosto. Durante le feste natalizie il centro commerciale è aperto fino alle 22, ma il nostro protagonista non rimane tutto il tempo. Deve andare in palestra, 1 ora di tapis roulant, da solo con gli auricolari. Da solo. Il centro commerciale chiude un’ora prima il 24 dicembre, alle 21. Il nostro protagonista si compra un chilo di tortellini, il brodo buono, sì, nel reparto gastronomia fanno anche il brodo buono, sono perversi, sono perversi, perché non si può sfuggire all’ipermercato. L’ipermercato è tutto. È la mamma, il papà, la zia, la sorella e la nonna, ma rompe meno i coglioni di loro.

Cercare la solitudine  per proteggersi dalle troppe parole, dalle troppe parole stupide, ma anche dalle troppe parole sagge. Cercare il silenzio per svuotare la testa dalle parole, dai pensieri accumulati, che fanno un grande caos in testa e impediscono di concentrarsi. Cercare il silenzio nel salotto di casa, con un piatto di tortellini e una bottiglia di champagne, all’ipermercato hanno anche dell’ottimo champagne, di una maison piccola che si occupa anche di agricoltura biodinamica. Il cortile interno del condominio dove abita il nostro protagonista è zeppo di macchine, anche sulla strada si fatica a parcheggiare. Lui mangia i tortellini e la carne. La bottiglia di champagne piano piano se ne va dentro di lui. Esce a fare due passi, quando c’è meno gente. Per fortuna c’è da mangiare anche per il giorno dopo, un’altra bottiglia di champagne lo aspetta. E il 27 può tornare nel suo amato centro commerciale, come il 28 e il 29, come il 30. Il 31 l’ipermercato chiude alle 18. Il nostro protagonista ha fatto scorta di generi alimentari, si ricorda che sa cucinare, va a casa e prepara il pesce. Prepara l’anguilla, ha con sé una bottiglia di Bosco Eliceo Fortana, che se ne va. Quando ha finito di mangiare, beve la grappa barricata. Fuori fa freddo e dei dementi fanno scoppiare i petardi. Il nostro protagonista non va più a mangiare al ristorante, ma, non ci andrebbe comunque. La sera dell’ultimo dell’anno si mangia quasi sempre male, c’è troppo casino e ci sono i dementi che fanno scoppiare i petardi, perdendo  dita e mani. A mezzanotte beve lo spumante, ma quello serio, Ferrari Riserva del Fondatore, Berlucchi vari, o, a volte, lo champagne. Finisce di mangiare, beve due calici di vino e la sua mente diventa più leggera, vaga in libertà.

Si siede in poltrona e pensa alla suoraccia che faceva la preside in quella scuola in cui lavorava lui, quella grassa, collezionista di mitragliette uzi. Era stata incarcerata, per aver molestato una decina di bambini, sotto l’influsso di sostanze psicotrope. Aveva scritto un libro, quella suoraccia, sulla propria storia, intitolato, io Silvio Pellico, io vittima del regime comunista. Pensa ad una donna ed ad un uomo grassi, che vedeva al mare, i quali adoravano quell’orrida donnaccia, considerata simbolo di perfezione. Pensa al libro di Edoardo Albinati, la scuola cattolica, che racconta il mondo delle scuole private, senza compiacimenti e senza preconcetti. Pensa alla mano di quella suoraccia nei suoi pantaloni. Gli viene da ridere, ora lui è al sicuro. Ora la sua vita è al sicuro. Ora è solo, la soluzione è la solitudine, non ha bisogno di altri, tranne che di sé stesso. Era solo, trentenne, senza figli. La sua vita era perfetta, sì, proprio vero, anche se quell’epiteto fa ridere. Esiste la perfezione nella vita? Va a dormire alle 3 e mezza della mattina, domani non andrà a mettere radici al centro commerciale, come fa sempre. Si alza a mezzogiorno, mangia un piatto di tortellini, finisce lo champagne, torna a letto, si rialza alle 5 del pomeriggio, legge un libro e, alla sera, mangia della carne lessata. Tutto bene, tutto ok. Il giorno dopo il centro commerciale apre alle 12 per inventario e il nostro protagonista può dormire fino a tardi. Ci sono i panettoni scontati, tra un po’ iniziano i saldi e al nostro protagonista importa poco. Ha gli armadi pieni di vestiti che non usa mai o quasi. Si veste sempre con camicia e maglione, non si mette mai abiti né troppo eleganti, né troppo sportivi. C’è il carnevale, san Valentino, qualche volta c’è la neve, ma poca, che non resta attaccata al suolo. Ci sono gli anziani che si ritrovano nella panchina accanto al nostro protagonista. Parlano spesso di argomenti interessanti e sono simpatici, sono una sicurezza. Ma forse sono una sicurezza che dura solo fino a giugno, quando la gente va al mare, quando un tranquillo signore anziano annuncia che sta per partire per un viaggio in Carelia, quando il nostro protagonista torna a casa e scopre che sono saltate le fogne e la casa è invasa dagli escrementi. Deve chiamare qualcuno che lo aiuti, non sa come fare e si ricorda del suo amico Righi, che gli amministra i risparmi, facendogli guadagnare abbastanza. Buongiorno Righi, lei se ne intende di merda, dice il nostro protagonista. Dipende, di che merda parliamo, risponde Righi, abituato alle stranezze dell’umano genere. Righi, mi è scoppiato il water, venga qui e si occupi di tutto, per favore, gli disse il nostro protagonista. Mi dica anche come posso fare a rimediare. Vada in albergo, ha i soldi, oppure vada nella sua casa al mare. Perché, quando mai ho avuto una casa al mare, replica stupito il nostro protagonista. L’ha comprata lei una sera in cui si annoiava, ma è quasi sempre rimasta chiusa, risponde Righi. Sarà sporchissima, dice il nostro protagonista. Ho capito, mando un’impresa di pulizie a sistemarla. Le costerà un bel po’. E va bene, pagherò. Pagherò.

 

4

 

La mente e la realtà fanno strani salti. Il nostro protagonista si è trovato molto bene al mare e ha deciso di rimanerci anche fuori stagione, in mezzo al deserto. In quel paese abitano 450 persone durante l’autunno e l’inverno, ma sembra che non ci abiti nessuno. Un giorno di settembre lui esce per andare al centro commerciale vicino a casa, non ha perso la buona abitudine di stare nei centri commerciali fino alla chiusura e di andare a correre la sera. Esce di casa ed incontra la figlia dei vicini, che vive nella villetta accanto. È una ragazzina simpatica, dal viso tondo, i capelli biondi e corti. Gioca a calcio e si chiama Elisa. Ciao, posso chiederti in prestito il cellulare, il mio e quello di mia mamma si sono rotti. Mia mamma deve fare una chiamata di lavoro molto importante. Va bene, risponde il nostro protagonista. Lui tiene il cellulare quasi sempre spento e si ricordava a fatica il pin. Qual è il pin, gli chiede la ragazzina. Lui glielo dice, si fida di quella ragazzina. La ragazzina rientra in casa e torna dopo 5 minuti. Ecco il cellulare, grazie. Il nostro protagonista se lo rimette in tasca e va al centro commerciale. Si siede sulla panchina e sente che qualcosa gli sta vibrando in tasca. È proprio il cellulare. Ommioddio, e come si risponde. Preme un tasto a caso e, dall’altra parte del telefono, qui è l’istituto di istruzione, sarebbe disponibile ad insegnare tedesco per 18 ore. Il nostro protagonista risponde sicuro, assolutamente no. La voce femminile dall’altra parte del telefono, le chiedo un favore personale. Io sono molto anziana, ho 85 anni e mi mancano 15 anni per andare in pensione. Ho dovuto telefonare per ore, ma gli insegnanti non rispondono o sono irreperibili. Sa, da quando c’è la legge che consente di sopprimere i docenti in eccesso o che non si uniformano allo spirito ottimistico governativo. Ma non valeva solo per le scuole private la possibilità di sopprimerli. E pensa alla suoraccia che maneggiava i mitragliatori uzi. no, caro professore, vale anche per le scuole pubbliche dall’anno scorso, rispose l’anziana donna. So che lei è una brava persona, anche se non la conosco personalmente. Da che cosa lo capisce, risponde il nostro protagonista. Dal tono della sua voce, replica l’anziana signora, con tono implorante. Mi capisca, la prego. Io so che lei, caro professore, è una persona intelligente. Potrei essere sua nonna, si sente dalla sua voce che è giovane. I miei capelli bianchi non mi sono venuti per niente, qualcosa la capisco. Il protagonista, si sente oramai vinto dalle insistenze, quando dovrei iniziare. Tra due giorni, alle ore 8. Va bene, allora inizio. E il nostro protagonista deve chiamare Righi, perché qualcuno rassetti la casa di città, chiusa da un anno.

Il narratore di questa storia potrebbe, prima o poi, raccontare di quanto stava bene il nostro protagonista in quel paese di mare, potrebbe raccontare che passeggiava anche per le strade deserte, tradendo per qualche ora il centro commerciale, potrebbe raccontare che stava scoprendo anche il silenzio, oltre che la solitudine, ma per ora, preferisce interrompere la sua narrazione

in forma di prefazione di “e se fosse”

La storia che cerco indegnamente di raccontare in “e se fosse”, di cui avete visto, forse, certi post, è sulla solitudine. mi piace questo pensiero di Saramago, che avevo già inserito tempo fa.

«La solitudine non è vivere da soli, la solitudine è il non essere capaci di fare compagnia a qualcuno o a qualcosa che sta dentro di noi, la solitudine non è un albero in mezzo a una pianura dove ci sia solo lui, è la distanza tra la linfa profonda e la corteccia, tra la foglia e la radice».
José Saramago

è una storia che parla di scuola e di amore. in uno dei miei primi post avevo inserito questo discorso di Calamandrei. Lo ripropongo.

“Quando la scuola pubblica è cosa forte e sicura, allora, ma allora soltanto, la scuola privata non è pericolosa. Allora, ma allora soltanto, la scuola privata può essere un bene. Può essere un bene che forze private, iniziative pedagogiche di classi, di gruppi religiosi, di gruppi politici, di filosofie, di correnti culturali, cooperino con lo Stato ad allargare, a stimolare, e a rinnovare con varietà di tentativi la cultura. Al diritto della famiglia, che è consacrato in un altro articolo della Costituzione, nell’articolo 30, di istruire e di educare i figli, corrisponde questa opportunità che deve essere data alle famiglie di far frequentare ai loro figlioli scuole di loro gradimento e quindi di permettere la istituzione di scuole che meglio corrispondano con certe garanzie che ora vedremo alle preferenze politiche, religiose, culturali di quella famiglia. Ma rendiamoci ben conto che mentre la scuola pubblica è espressione di unità, di coesione, di uguaglianza civica, la scuola privata è espressione di varietà, che può voler dire eterogeneità di correnti decentratrici, che lo Stato deve impedire che divengano correnti disgregatrici. La scuola privata, in altre parole, non è creata per questo.La scuola della Repubblica, la scuola dello Stato, non è la scuola di una filosofia, di una religione, di un partito, di una setta. Quindi, perché le scuole private sorgendo possano essere un bene e non un pericolo, occorre:

– che lo Stato le sorvegli e le controlli e che sia neutrale, imparziale tra esse. Che non favorisca un gruppo di scuole private a danno di altre.

– che le scuole private corrispondano a certi requisiti minimi di serietà di organizzazione.

 

Solamente in questo modo e in altri più precisi, che tra poco dirò, si può avere il vantaggio della coesistenza della scuola pubblica con la scuola privata. La gara cioè tra le scuole statali e le private. Che si stabilisca una gara tra le scuole pubbliche e le scuole private, in modo che lo Stato da queste scuole private che sorgono, e che eventualmente possono portare idee e realizzazioni che finora nelle scuole pubbliche non c’erano, si senta stimolato a far meglio, a rendere, se mi sia permessa l’espressione, “più ottime” le proprie scuole. Stimolo dunque deve essere la scuola privata allo Stato, non motivo di abdicazione. Ci siano pure scuole di partito o scuole di chiesa. Ma lo Stato le deve sorvegliare, le deve regolare; le deve tenere nei loro limiti e deve riuscire a far meglio di loro. La scuola di Stato, insomma, deve essere una garanzia, perché non si scivoli in quello che sarebbe la fine della scuola e forse la fine della democrazia e della libertà, cioè nella scuola di partito. Come si fa a istituire in un paese la scuola di partito? Si può fare in due modi. Uno è quello del totalitarismo aperto, confessato. Lo abbiamo esperimentato, ahimè. Credo che tutti qui ve ne ricordiate, quantunque molta gente non se ne ricordi più. Lo abbiamo sperimentato sotto il fascismo. Tutte le scuole diventano scuole di Stato: la scuola privata non è più permessa, ma lo Stato diventa un partito e quindi tutte le scuole sono scuole di Stato, ma per questo sono anche scuole di partito. Ma c’è un’altra forma per arrivare a trasformare la scuola di Stato in scuola di partito o di setta. Il totalitarismo subdolo, indiretto, torpido, come certe polmoniti torpide che vengono senza febbre, ma che sono pericolosissime.

 

Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d’occhio i cuochi di questa bassa cucina. L’operazione si fa in tre modi: ve l’ho già detto:

– rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni.

– attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette.

– dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico!

Quest’ultimo è il metodo più pericoloso. » la fase più pericolosa di tutta l’operazione […]. Questo dunque è il punto, è il punto più pericoloso del metodo. Denaro di tutti i cittadini, di tutti i contribuenti, di tutti i credenti nelle diverse religioni, di tutti gli appartenenti ai diversi partiti, che invece viene destinato ad alimentare le scuole di una sola religione, di una sola setta, di un solo partito […].

 

Per prevedere questo pericolo, non ci voleva molta furberia. Durante la Costituente, a prevenirlo nell’art. 33 della Costituzione fu messa questa disposizione: “Enti e privati hanno diritto di istituire scuole ed istituti di educazione senza onere per lo Stato”. Come sapete questa formula nacque da un compromesso; e come tutte le formule nate da compromessi, offre il destro, oggi, ad interpretazioni sofistiche […]. Ma poi c’è un’altra questione che è venuta fuori, che dovrebbe permettere di raggirare la legge. Si tratta di ciò che noi giuristi chiamiamo la “frode alla legge”, che è quel quid che i clienti chiedono ai causidici di pochi scrupoli, ai quali il cliente si rivolge per sapere come può violare la legge figurando di osservarla […]. E venuta cos” fuori l’idea dell’assegno familiare, dell’assegno familiare scolastico.

 

Il ministro dell’Istruzione al Congresso Internazionale degli Istituti Familiari, disse: la scuola privata deve servire a “stimolare” al massimo le spese non statali per l’insegnamento, ma non bisogna escludere che anche lo Stato dia sussidi alle scuole private. Però aggiunse: pensate, se un padre vuol mandare il suo figliolo alla scuola privata, bisogna che paghi tasse. E questo padre è un cittadino che ha già pagato come contribuente la sua tassa per partecipare alla spesa che lo Stato eroga per le scuole pubbliche. Dunque questo povero padre deve pagare due volte la tassa. Allora a questo benemerito cittadino che vuole mandare il figlio alla scuola privata, per sollevarlo da questo doppio onere, si dà un assegno familiare. Chi vuol mandare un suo figlio alla scuola privata, si rivolge quindi allo Stato ed ha un sussidio, un assegno […].

Il mandare il proprio figlio alla scuola privata è un diritto, lo dice la Costituzione, ma è un diritto il farselo pagare? » un diritto che uno, se vuole, lo esercita, ma a proprie spese. Il cittadino che vuole mandare il figlio alla scuola privata, se la paghi, se no lo mandi alla scuola pubblica.

 

Per portare un paragone, nel campo della giustizia si potrebbe fare un discorso simile. Voi sapete come per ottenere giustizia ci sono i giudici pubblici; peraltro i cittadini, hanno diritto di fare decidere le loro controversie anche dagli arbitri. Ma l’arbitrato costa caro, spesso costa centinaia di migliaia di lire. Eppure non è mai venuto in mente a un cittadino, che preferisca ai giudici pubblici l’arbitrato, di rivolgersi allo Stato per chiedergli un sussidio allo scopo di pagarsi gli arbitri! […]. Dunque questo giuoco degli assegni familiari sarebbe, se fosse adottato, una specie di incitamento pagato a disertare le scuole dello Stato e quindi un modo indiretto di favorire certe scuole, un premio per chi manda i figli in certe scuole private dove si fabbricano non i cittadini e neanche i credenti in una certa religione, che può essere cosa rispettabile, ma si fabbricano gli elettori di un certo partito“.

il bambino più solo al mondo

il bambino più solo al mondo

pensiero sulla solitudine

«La solitudine non è vivere da soli, la solitudine è il non essere capaci di fare compagnia a qualcuno o a qualcosa che sta dentro di noi, la solitudine non è un albero in mezzo a una pianura dove ci sia solo lui, è la distanza tra la linfa profonda e la corteccia, tra la foglia e la radice».

Saramago “L’anno della morte di Ricardo Reis”