MENO CINQUE
Corri ragazzo corri, corri ragazzo corri, ma cosa cazzo insegui, coglione? La speranza si svende, tutto il resto si compra, diceva qualcuno. I folli sono coloro i quali vedono la fine del tunnel. Eh, già, anche io la vedevo, poi ho visto le pastiglie dentro una confezione azzurra, gli sguardi pietosi di quei bastardi fottuti e i camici bianchi. Sorridi, sorridi, stronzo, poverino, hai bisogno di essere sorvegliato. Il signor S. sentiva provenire questa canzone da un palazzo vicino, mentre stava lavorando. Non se ne intendeva molto di certa musica.
Alberto non aveva parlato della sua attività neanche a Giovanni ed Elisabetta, aveva paura. In quei giorni Alberto voleva cercare una scuola di balletto da frequentare e si era informato. Un pomeriggio si presentò alla scuola Tersicore. La porta a vetri che conduceva a quella scuola era decorata da un bel disegno della musa della danza. Sulla destra c’erano gli spogliatoi che l’insegnante gli mostrò. Lo spogliatoio per i maschi era quasi deserto. Lungo il corridoio si vedevano le sale corsi, che erano tre. Alberto notò che nella prima sala c’erano un gruppo di bambine di 4-5 anni che si esercitavano. Sono le nostre piccole, gli disse l’insegnante. Alberto parlava con voce rotta dall’emozione e l’insegnante se ne accorse molto presto. Scusa, ma sei emozionato? Il ragazzo rispose, sa io ho sempre avuto un po’ di problemi a rivelare la mia passione. L’insegnante, una ragazza alta mora e dai lunghi capelli lisci neri raccolti, sorrise. Nella seconda sala la lezione coinvolgeva un gruppo di ragazzini e ragazzine sui dodici anni, tra i quali noto due maschi. Alberto si rincuorò. Pensò, meno male che non sono il solo. Alberto non sapeva che cosa lo stava aspettando. Un, deux, trois, quatre, la voce dell’insegnante della terza sala ritmava i movimenti degli allievi. La ragazza indicò la terza sala e guardò Alberto, questo sarà il tuo gruppo, hanno dai 15 ai 18 anni. Ci sono due ragazzi anche qui. Ancora un po’ e superiamo la parte femminile, disse Alberto. Sarebbe bello, disse la ragazza. Punto la sua attenzione sui ragazzi, perché voleva controllare se li aveva già visti. Un ragazzo moro, dai capelli corti e dai lineamenti dolci, gli sorrise timidamente. A un certo punto accadde l’irreparabile, se così lo si può definire. Una ragazza lo notò con la coda dell’occhio e lo chiamò: Alberto!!. Era Eli che stava frequentando la lezione di danza. Il ragazzo si mise a tossire, fece finta di non vedere e si allontanò, diventando di tutti i colori per la vergogna. All’insegnante che lo accompagnava disse, scusi, vado in bagno. La sua testa fu invasa da orrendi pensieri, presagiva il peggio. Aveva paura che si scoprisse quale era la sua grande passione. Mentre si allontanava venne salutato da un’imponente figura, postasi davanti a lui. Era Gio che era venuto a trovare quella ragazza, che ormai si era reso conto di amare, anche se non riusciva a dirglielo, perché non si sentiva alla sua altezza. Il povero Alberto era ormai divenuto paonazzo, la lezione di danza era finita, quando Elisabetta uscì. Ciao Giovanni, ciao Alberto che ci fai qui? Alberto rispose con un filo di voce, ero… ero passato per salutarti. Hai fatto benissimo! Come va la vita? A me bene. L’insegnante che lo accompagnava, intanto, si era distratta per un attimo, poi disse sorridendo, vi conoscete? Lei sarà una delle tue compagne del corso di balletto. Elisabetta sorrise, con gli occhi che sprizzavano gioia. Che bello, anche tu studi danza classica, perché non me lo avevi detto? Mi vergognavo. Guarda che è un’arte stupenda, rispose Eli. Gio annuiva. Vieni che ti presento gli altri. I componenti del corso erano 12. Tutti i ragazzi gli si fecero intorno, ponendogli mille domande, esprimendogli la loro gioia per averlo come nuovo compagno di corso. Alberto passò dall’imbarazzo alla gioia per aver conosciuto tutte quelle persone. Andò a casa contento.
Il narratore di questa storia è tenuto a fare una precisazione: come certamente i lettori si saranno accorti non sta raccontando tutto quello che succede giorno per giorno al signor S., per due ragioni principali. La prima è rappresentata dal fatto che lo scrittore è una persona riservata, la seconda risiede nella scarsa importanza di certi particolari per l’economia del racconto, come scriverebbero i professionisti.
Driin, quella cazzo di porta doveva proprio suonare in quel momento. Il signor S. era in una situazione molto imbarazzante. Con i pantaloni in mano corse a chiedere, chi è. Cartella esattoriale, fece una voce decisa. Che sarà mai successo? Mannaggia a Borri, si disse. Che cosa avrà mai combinato? Penso che lo inseguirò con una mazza da baseball. Andò ad aprir la porta. C’era Gianni vestito elegantemente con un cappello Borsalino e una sciarpa di seta. S. scosse la testa in segno di disapprovazione. Ancora tu, ma che sei venuto a fare, gli chiese con aria scocciata. Anche se potrebbe sembrare strano S. gradiva la visita del suo amico con i baffetti. Entra, entra, ti preparo un caffè, gli disse subito dopo. Entro, ma dobbiamo far presto, replicò l’anziano medico. Perché, che vuoi, S. lo guardò con aria spazientita. Beviamoci il caffè, poi te lo spiego. Adesso mi racconti tutto, altrimenti ti sbatto fuori di casa a pedate. Prima rilassati, insisteva l’amico. Ho detto di no, voglio sapere tutto, non farmi stare in ansia. Vabbé, dobbiamo andare subito da Ascione. Tu sei completamente pazzo, non ci penso nemmeno. Vacci tu, io sono un vecchio stanco. S., nel frattempo, era scattato in piedi come una molla. A me i democristiani fanno schifo. Affanculo il compromesso storico. Tu devi venire, è un’impresa difficile, dobbiamo essere in due. Il medico continuò, devi assumerti le tue responsabilità, disse con tono solenne e un po’ paternalista. Fu a questo punto che l’anziano scrittore tuonò letteralmente, le mie responsabilità, quali responsabilità. Un vecchio rottame, secondo te, avrebbe delle responsabilità. Io non voglio entrare in questa storia, non ci voglio entrare nel modo più assoluto. Per me la vita è finita, si esaurisce a C. Gianni sorrise, lo so benissimo che sei interessato, a me non la fai, ti conosco troppo bene. E sorseggiò il caffè, che S. gli aveva porto. L’anziano scrittore lo guardò severamente e, dopo qualche secondo di silenzio, gli disse, mi raccomando, dopo che siamo andati da quello lì, voglio essere riportato subito qui. E poi, pare che nevichi, si rischia pure per la strada. Ma che si rischia, con la mia automobile non si rischia nulla. Il cielo prometteva malissimo. S. imprecò più volte, ripeteva, voglio essere riportato qua, subito. Te l’ho detto che sono stanco. Si vestì. Per arrivare all’autostrada da quel paese c’erano circa 50 chilometri di distanza. Presero la statale R. e la S. S. che era una lunga striscia di asfalto con le ambizioni da autostrada, ma non aveva né una corsia di emergenza, né un’area di servizio. S. era preoccupato, una pioggerellina mista a neve incominciava a scendere, mentre Gianni commentava, mi manca un sigaro. Tu non fumi, vero, gli fece. No, e non provarci nemmeno ad accenderti il toscano, altrimenti scendo dalla macchina e me ne torno a casa con il taxi. Il medico sorrise. Entrarono in autostrada, passando per una corsia di accelerazione eccessivamente tortuosa ed illogica. Iniziò a nevicare. S. era ancor più in ansia ed imprecò nuovamente. Gianni rise fragorosamente, guardandolo con aria di chi sa tutto gli disse, ma non sai che ho fatto mettere i pneumatici invernali e poi questa automobile ha l’ABS, l’EBD, l’ESP, l’OST. Basta!!! Gridò S. e la risata dell’amico divenne ancor più violenta. Dopo avere percorso alcuni chilometri uscirono dall’autostrada, mentre qualche automobile sbandava a causa del fondo stradale. Non vedi che è pericoloso?!! Gli gridò. Sono loro che non sanno come si guida, replicò Gianni. Prese la tangenziale fino ad uno svincolo periferico che conduceva ad una zona ricca di officine di vario genere e natura che fungeva da confine con quel po’ che rimaneva di campagna. Sorpassarono un poligono di tiro, un passaggio a livello e si avviarono verso un edificio risalente agli anni ’50. Scesero dall’automobile, i campi erano coperti di neve. L’automobile perfetta nuovissima superaccessoriata multiequipaggiata eccetera eccetera di Gianni non aveva avuto alcun problema nonostante il fatto che molte strade fossero coperte da uno spesso strato di fanghiglia, neve e polvere che, invece, avrebbe terrorizzato il povero signor S., se fosse stato da solo alla guida della sua F..T T.
Sgusasse, dove vorrebbi andare, chiese loro il carabiniere che stava all’entrata, un ragazzo di 18-20 anni dall’aria non proprio sveglia. Abbiamo bisogno del maresciallo Ascione. Mi fagiesse vedere un documento, per favore. S. e Gianni mostrarono i rispettivi documenti. Il carabiniere disse, con aria sorridente, vadino, vadino. Tornò a leggere lo Stadio e Forza B., ce la puoi fare. Da notare che era il nome della testata. Segondo uffigio a deztra. Bussarono alla porta dopo avere attraversato i corridoi di quella che era stata una scuola elementare. Maresciallo Grand. Uff. Cav. Di Gr. Cr. Gerardo Ascione. Quanno fa notte e ‘o sole se ne scenne, me viene quasi ‘na malinconia, la radio era stata accesa a tutto volume. T’aggio voluto bene a te tu m’è voluto bene a me. Chi siete? Siamo S. e Gianni Marchi. Ooo sole mio sta ‘n fronte a te, intonò Gerardo, era anche un tenore dilettante. Come so’ contento!!! Alle pareti c’erano quadri di Sant’Alfina, San Gennaro, San Gelasio e San Gerardo D’Alessio di Casavatore, posteggiatore abusivo proclamato santo nel 1994. Ascione aveva in mano un rosario. Aggio ditto 10 Pater 20 Ave e 30 Gloria per confessarmi dei piccati che ho commettuto. Tengo nu’ cabaret e babà, na’ butteglia e sciambagn, sciambagn per brindare a un incontro, Peppino Di Capri, ti amo!! S. e Gianni rimasero allibiti, nonostante lo conoscessero da molti anni. Brindarono, mannaggia, quanto magnate, sorcimel, come diciamo a Bbologna… Gerà, ascolta, abbiamo bisogno di te. Che, vi ha chiamato Rosà, Rosariuzza, l’amore mio. No, si tratta del liceo Ics, lo conoscerai di sicuro. Dovresti promuovere un’indagine sui conti correnti del preside e di tutto il CDA. Dobbiamo saper tutto dei parenti e anche degli amici. Ma è complicato, non si può, bisogna chiedere l’autorizzazione del magistrato, è lungo, sta volta non posso proprio. Ascione si era irrigidito tutto ad un tratto. S. e Gianni lo guardarono sconsolati. S. attaccò discorso a proposito del monastero intitolato a San Gerardo D’Alessio, al quale era molto devoto il maresciallo. Si trattava di una costruzione progettata dal grande architetto nipponico Yosuke Kazzuya Shikatzu. Il parroco è Don Cherubino Ronzinante Scapece, grande amico di Ascione. Abbiamo intenzione di fare un’offerta per il monastero, disse, ad un certo punto, l’anziano scrittore. Il maresciallo si intenerì di nuovo, ah Gesù, Gesù sia lodato. Oi vita, oi vita mia, oi core e chistu core, si’ stato o’ primmo ammore e o’ primmo e l’ultimo sarai pe’ mme. Voi volete fare un’offerta per il monastero. Invoco tutti i santi drammaturghi o taumaturghi come si chiamano, San Gennaro, Sant’Alfina, San Gelasio e San Gerardo. Forza, cacciate l’assegno, 3000, 4000, 5000? Pensandoci bene, forse sono meglio i contanti, in banconote da 50 euro. Gianni sorrise aveva capito benissimo cosa voleva dire S. in quel preciso momento, poi assunse un’espressione seria. Gerà, ascolta, tu ci devi un favore. Lo sai che noi due non siamo religiosi. Stiamo però riscoprendo il senso del divino. Per premiare questa nostra scoperta, che testimonia la possibilità anche per gli atei di redimersi, devi iniziare quell’indagine. Eh no, mica è giusto, rispose il carabiniere con aria triste. Aggio ditto che non puozz. S. guardò prima Gianni e poi Ascione, credo di non poter contribuire sai, mio caro, perché devo far eseguire una riparazione alla mia automobile. Lo sai quanto costano le riparazioni… Io devo far eseguire una riparazione in bagno molto importante, invece, disse Gianni. L’idraulico è caro arrabbiato. Gerardo li guardò con l’aria di chi si arrende e disse, guagliù, aggio capito. Puozz’ provà, ma nun vi garantisco, è ddifficile. S. e Gianni fecero finta di niente. Noi dobbiamo andare, speriamo in bene Gerà. Ti faremo avere la vile pecunia. Si salutarono e se ne andarono.
Vuoi passare da casa tua, chiese Gianni. No, no, replicò l’amico con aria infastidita, riportami a C. Gianni riprese, sulla strada per C. conosco una trattoria sensazionale, potrei chiamare anche Cecilia. Si chiama L’acqua fa male, il vino fa cantare. È un posticino un po’ isolato, conosco bene il proprietario. Mi sembra una buona idea, rispose l’anziano scrittore. Il medico telefonò alla moglie, le propose di raggiungerli con il taxi, ma lei si dimostrò recalcitrante. E se ti venissi a prendere con l’automobile… In tal caso potrei pensarci, rispose Cecilia. Deviarono verso casa Marchi, la moglie li attendeva agghindata di tutto punto, fuori dalla porta. Li salutò, baciò il marito e S. Era sempre ben pettinata, anche quando faceva le pulizie in casa. Quel giorno c’era un traffico esagerato. Le automobili procedevano a passo d’uomo. Imboccarono la statale che conduceva a C., poi una strada secondaria. Quanto manca, chiese S. Siamo arrivati, rispose con aria soddisfatta Gianni. Percorsero ancora 7-8 chilometri per quella strada sterrata, che, a differenza della statale, non era stata ancora ripulita dalla neve, la quale, nel frattempo, aveva smesso di tormentare. La trattoria era un vecchio palazzo in sasso, risalente almeno al ‘600. S. si domandava come potessero abitare, 400 anni prima, in quel luogo sperduto. Sul cartello davanti alla porta del ristorante, sarebbe esagerato chiamarlo insegna, c’era scritto pan ed gran, vén ed’ tarbian, fug d’querza, e una bela dona, anc’ s’l’è guerza. Che c’entra con l’acqua fa male e il vino fa cantare, chiese S. Quello era il vecchio nome con il vecchio proprietario. Da quanto tempo è cambiata la gestione, replicò S. Da 10 anni. Mah, fece lo scrittore. Sull’elenco telefonico è indicato con la ragione sociale Frà Pignat e d’beva e’ Sanzves int la bocia ed lat snc. Avevano dovuto parcheggiare ad un paio di km di distanza, perché il ristorante si trovava in mezzo ad un campo, impossibile da raggiungere con l’automobile. Un carro agricolo, guidato da Salomone, il nipote del proprietario, andava a raccogliere i clienti facendoli sedere sulle balle di fieno appoggiate nella parte posteriore del veicolo. Salomone era un giovanottone della montagna modenese, aveva sempre in testa un cappello da contadino per 12 mesi l’anno, anche quando si coricava. Era sempre con il maglione, con lo stesso. S’al tein al fred, al tein anch’al cald, diceva sempre, ziocaantaa. Ziocantaa, avete visto c’è stata la neve. Nel ristorante non c’era il riscaldamento, né, tanto meno, l’aria condizionata. Ettore Moscatelli era un uomo sul metro e novanta, di 55-60 anni, con i baffoni neri, il grembiulone perennemente unto e bisunto. C’erano 5 tavolacci di legno tarlato e un cameriere ubriaco con lo stomaco gonfio che emetteva terribili rutti che facevano aprire le finestre, dalle quali entravano terribili spifferi. Alle pareti erano appesi cartelli con frasi tipo cioccolata, ponc, rum, cervogia, barberia, giulebbe e sidro, e thé, fin che vino al mondo c’è non farete mai per me e calendarietti con donne nude in pose sconce. Il menu era composto da 3 primi e 3 secondi, scelti a seconda dell’umore del cuoco. Mangiarono un succulento piattone di tagliatelle e coniglio alla cacciatora. Pagarono, la ricevuta trasudava olio. Lasciarono il ristorante e S. fu accompagnato a C. Cecilia e Gianni non si trattennero. S. era stanco.
La manifestazione contro il vertice internazionale si avvicinava. I partiti di destra, ma anche alcuni di sinistra moderata, presagivano sicure violenze da parte delle frange estremiste dei manifestanti. Una famosa giornalista scrisse in un articolo che i violenti andavano isolati. Si intende che la giornalista definiva come violenti tutti i manifestanti. Andavano isolati anche ricorrendo a mezzi drastici, come la violenza. Bisognava imporre la pace a quei fascisti, intolleranti, bastardi, putridi, infingardi, leccapiedi, nipotinidistalinlenintogliattiechipiùnehapiùnemetta, pezzi di merda. Quando chiesero alla giornalista il perché di quell’espressione non molto urbana, rispose che era un complimento per quei noglobalcomunistiintollerantinipotinidibertinottieanchedelsubcomandantemarcos. Il ministero dell’interno aveva annunciato l’arrivo di nuovi manganelli, chiamati tonfa, per reprimere la violenza dei manifestanti. Avrebbero di sicuro fatto molto male. Migliaia di poliziotti, carabinieri, finanzieri e militari furono mobilitati per garantire la sicurezza della città di B. il governo decise di istituire una zona rosso fuoco, una zona rossa, una zona rosa, una zona rosa pallido, a seconda dei vari livelli di sicurezza. Dalla zona rosso fuoco furono evacuati gli abitanti, che erano solo qualche migliaio. Avrebbero dovuto stare lontani dalle loro case per solo dieci giorni. La zona rosso fuoco fu chiusa con il filo spinato, collegato all’alta tensione. Chi osava avvicinarsi sarebbe stato scosso da migliaia di volt di tensione. Tutti i palazzi vennero controllati da capo a piedi. Nelle case furono rivoltati i cassetti e buttato all’aria tutto quello che c’era. Furono smontati tutti i mobili. Furono mobilitati i corpi speciali della polizia, dei carabinieri e della guardia di finanza. Anche i vigili urbani furono dotati di manganelli speciali. Si parlò anche di un divieto di manifestazione. Tutti i giornali governativi e di sinistra moderata riportavano le immagini di “manifestanti” con il coltello tra i denti e il sangue alla bocca. Gli editorialisti dei giornali parlavano delle assurde pretese dei manifestanti di fermare la globalizzazione e dei loro piercing. Alcuni vignettisti alla moda li ritraevano con bombe molotov in mano e sguardo truce.
Il signor S. non prestava molta attenzione a queste notizie. La storia la fanno i vincitori, diceva. In questo caso gli sconfitti siamo noi e questi ragazzi ne pagano le conseguenze. A volte penso che dovremmo vergognarci di quello che abbiamo fatto loro oppure a volte penso che facciamo ridere, con le nostre fissazioni e la nostra vecchiaia, che è vecchiaia mentale, prima di tutto. Pensava questo mentre si stava per coricare. Faceva un freddo cane. Il clima era umido e sgradevole. Alla mattina si alzò presto, dopo un po’ accese la radio. Questi truci individui chiamati noglobal facevano paura, perché avevano tutti il piercing e fumavano gli spinelli, che sono la droga per le zecche comuniste. I poliziotti fermavano ragazzi, perché avevano i pantaloni troppo larghi. La radio annunciava che a B. la giornata sarebbe stata molto agitata. Quel giorno le scuole sarebbero state chiuse, come i negozi, a causa di un ordinanza ministeriale. Alcuni negozianti, che violarono il divieto, furono accusati di “intelligenza con il nemico”, vennero arrestati e processati per direttissima da magistrati leali ed equilibrati e non da toghe rosse politicizzate e parziali. Il cielo era grigio, cadeva una pioggerellina fitta, fredda e terribilmente fastidiosa. Mentre gli pareva di sentire il suono di una radio che trasmetteva un gruppo della città della Ghirlandina di musica irlandese, il signor S. si sentiva fiacco, stanco, demotivato. Pensava che non avrebbe concluso niente e, così si mise ad ascoltare la radio, non prima di avere sbrigato le sue formalità. Era attaccato alle abitudini, come tutti gli anziani. Quando glielo facevano notare, lui sosteneva di esserlo sempre stato, anche da giovane. Intanto era arrivata metà mattina, si preparò una tazza di tè caldo.
Il fidanzato di Helena è un giovane di buona famiglia, forse il narratore ha già menzionato questo particolare. È brillante e religioso, va sempre in parrocchia, fa mille battute, è sempre impegnato. Helena è libera, non ne vuol sapere di religione. L’uomo crea le proprie divinità, come sosteneva Senofonte e come ha ripreso Feuerbach. Cerca di offrire spiegazioni soprannaturali a fenomeni che non vuole e non può capire. La divinità è la proiezione del nostro pensiero, della nostra insicurezza. È così per tutte le religioni, anche se, qualche ex marxista, devoto all’ideologia del politically correct, finge di scordarsene. A cena Hector si stupì molto, perché Helena conosceva i suoi libri. Era persuaso che una ragazza potesse pensare solo alle frivolezze della vita, ma, quando la sentì citare i filosofi, i suoi pregiudizi furono messi in discussione. Il suo fidanzato faceva battute su tutto, anche sui filosofi. Beninteso, Helena era una ragazza allegra ed ironica, ma, ogni tanto, voleva occuparsi anche di qualcosa di serio. È stato bello parlare con te, ci resterei sempre, disse a voce bassa Helena. Anche io, si lasciò scappare Hector. Non pensò nemmeno a ciò che aveva appena detto. Sua moglie non sentì. Tornarono a casa.
- guardò il cielo, se non fosse stato perché aveva mangiato bene, sarebbe stato di pessimo umore. Gli venne da pensare alle morti di Marini e Castaldi. Le indagini erano state subito archiviate, anche se le incongruenze erano molte. Marini era stato considerato un potenziale attentatore e Castaldi un suicida. Tutti i giornali ne avevano parlato. I giudici non avevano nemmeno disposto l’autopsia. Come fare ad arrivarne a capo? La risposta era sempre quella: Ascione!
Gio scriveva poesie, era timido. Non voleva che nessuno lo sapesse. Era tanto casinista. Scriveva su lembi di giornali, su scontrini di cassa. Aveva scritto una poesia per Eli durante una lezione di Paperini. Nunc- se – la – fecit- addossum – Maria. Leva – in – alto – manum – sum – tuum – capitanum. Move – in – tempo-bacinum- sum – capitanum – uncinum – prego – ante – tuum – nomen – vero – qui- es- sfigatus- vero – qui – cantis – bene – falsum. Aaammenn. Arriva l’intervallo. Gio, che hai lì. Lascia stare, insmita, rispose il ragazzo. Lei gli strappo di mano il foglietto, uno scontrino della coop, e iniziò a correre verso il corridoio. C’era un grande caos, tutti erano in giro tra una classe e l’altra e conversavano animatamente. Dammi qua, dammi qua, le gridava il ragazzo. Il preside era, tutto sommato, magnanimo, lasciava far l’intervallo anche ai meno abbienti, i quali avrebbero potuto essere rosi dall’invidia nel vedere i loro coetanei con tutti gli ultimi modelli della famosa marca, quei pezzentoni ne avevano solo uno, due al massimo. L’invidia nei confronti dei più abbienti li conduce sicuramente alla delinquenza e al comunismo, che sono fratelli. Stavano ancora correndo per il liceo, mentre le casse dell’impianto stereo diffondevano canzoni come Faccetta Nera e Giovinezza. C’era stata la pacificazione. Sicuramente qualcuno avrebbe visto i ragazzi, perché il liceo era pieno di gente e di telecamere. Sarebbero stati sicuramente processati e puniti dal Tribunale Speciale Per la Difesa Del Liceo, il quale altro non era che il Consiglio di Amministrazione. La punizione maggiore e più temuta era la crocifissione in aula magna, seguita dal supplizio di stare in ginocchio sui ceci. Fermati, fermati, cazzo. No, no, che hai da nascondere, rispondeva allegramente Eli. Gio era un campione di atletica e non tardò a far valere le proprie doti, raggiungendo la ragazza e afferrandola. La fanciulla si sbilanciò e cadde. Sotto c’erano quelle confezioni, che sembravano risme di carta. Anche Gio cadde. Si udì un rumore provenire dall’interno di quelle risme, sembrava quello di granelli di sabbia. Eli guardò Gio con aria turbata, vista anche la posizione in cui erano in quel momento. Si alzò in piedi. Che c’è qua dentro. Tagliò la fascetta che la chiudeva con il cutter. Sollevo il coperchio, che non emise alcun rumore. Scosse il contenitore, non si udì nulla. I secondi passavano, si rischiava. Fece la stessa cosa con un altro contenitore. Il coperchio emise un rumore di granelli di sabbia. Lo osservò, sembrava che non avesse nulla di strano. Sicuramente c’era un doppio fondo. Incise la parte interna del coperchio. Caddero dei granelli bianchi, cocaina. Si guardarono allibiti. Non pensarono più a quel che stava scritto sullo scontrino. Gio richiuse il contenitore poco prima che arrivasse il prof. Marini che iniziò a cantare a squarciagola: IN TUTTO IL MONDO, DOVUNQUE ANDIAMO, QUANDO QUALCUNO CI DOMANDA, CHI NOI SIAMO, CHI NOI SIAMO. E NOI IN CORO RISPONDIAMO: SIAMO L’ARMATA ROSSONERA E MAI NESSUN CI FERMERÀ, NOI SAREMO SEMPRE QUA, SIAMO DEL COMMANDO ULTRÀ, IL MILAN E’ LA SQUADRA DEL MIO CUOR. INTER, INTER, VAFFANCULO!!! Ciao regaz, come butta?
Era molto contento del fatto che quei due ragazzi partecipassero ai roghi dei libri, essi, inoltre partecipavano alle messe di Don Paperini e si erano iscritti al partito Forza Nonsocosa. Finalmente abbiamo strappato quei due ragazzi alla merda comunista, disse, parlando con Mister Ics. Il nostro Signore Potente e Misericordioso ci ha aiutati, disse il preside, passandosi una mano sui candidi capelli. Era vestito di grigio con una cravatta argentata.
Esistono dei presupposti che fondano il sistema culturale di ogni città, di ogni nazione. Dopo la guerra, a B., i discendenti di quei signori con la camicia nera venivano messi ai margini. Un signore con i baffetti bianchi, che parlava molto bene, non poté nemmeno cibarsi ad un autogrill dal buffo nome. Quei signori, che avevano coperto la camicia dal colore molto scuro con il doppiopetto, non potevano neanche tenere le proprie adunate nella famosa piazza centrale ed erano costretti ad andare in punti periferici della città, venendo inoltre ricoperti di insulti. Troppe persone avevano subito dei drammi in famiglia: parenti, amici, conoscenti uccisi oppure essi stessi avevano sofferto per quello che era successo in tanti anni. Anche coloro i quali non ne erano stati toccati direttamente provavano un sentimento vero e sincero di profonda avversione nei confronti di quelle idee nefaste che avevano provocato la disfatta del loro paese. Avevano ottenuto qualcosa di concreto, la democrazia, la libertà e differenti rapporti sociali, l’avevano ottenuto perché avevano lottato strenuamente, anche commettendo errori tragici. Qualcuno aveva santificato la Resistenza, ma non le aveva voluto veramente bene, l’aveva esposta alle critiche maligne di quei soloni che gridavano, chi sa parli, il triangolo della morte, l’Italia divisa, le ragioni dei ragazzi di salò. Gli esseri umani sono fallibili: i partigiani hanno certamente commesso errori, ma perseguendo il nobile fine di liberare l’Italia dalla schiavitù fascista. Si è incominciato a cedere pezzo per pezzo, a seppellire le ragioni dell’antifascismo a forza di rivedere. Il loro fine è stato quello di cambiare le carte in tavola, di ribaltare i ruoli di vittima e carnefice per i loro sporchi fini di utilità politica. Chi sono i bastardi che compiono questa operazione: sono gli eredi di quei signori che incentivavano i trasporti verso i parchi di divertimento di Bergen Belsen e Treblinka, sono quei signori che si sono tagliati la barba lunga e hanno nascosto le foto del matrimonio officiato dal prete rosso.
Dobbiamo avere il coraggio di rivedere, dobbiamo chiedere scusa. In fin dei conti quelli che ammazzavano gli uomini con gli stivali, solo perché li credevano poliziotti, non erano poi così cattivi, avevano le loro ragioni. coloro i quali ammazzavano le donne e i bambini, torturavano persone innocenti, erano pochi ragazzi ingenui. I ragazzi possono commettere degli sbagli. Alcuni di loro erano tanto bravi a giocare a carte, questo è un indubbio merito che non può essere inficiato da qualche peccatuccio veniale.
Gli ebrei erano una potente lobby, forse lo sono tuttora. C’è stato chi, come la gerarchia cattolica o i nazisti, li contrastava perpetrando atroci stragi fino a giungere al più colossale dei massacri, l’Olocausto. Ora non si può criticare gli ebrei, perché si viene subito tacciati di antisemitismo, come se le critiche a quell’individuo che organizza operazioni pacifiche chiamate Pioggia d’estate fossero una critica all’essenza stessa del giudaismo. E. O. è un perfetto stronzo, e così anche il narratore di questa storia è diventato antisemita. Secondo l’Enciclopedia, l’antisemitismo
È l’ostilità verso gli ebrei (benché tra i popoli semiti, ossia discendenti di Sem, si annoverassero anche arabi, assiri e aramai) [1] è un sentimento fortemente diffuso nella società europea, soprattutto a partire dalla diffusione del cristianesimo; ma ha acquistato una dimensione nuova nei secc. XIX e XX, con l’avvento del nazionalsocialismo […] e dei fascismi.[2]
In questo periodo va di moda, da una parte, il razzismo nei confronti degli arabi, da un’altra un buonismo cazzuto propugnato da cattolici ipocriti. Si può essere assunti in regione a rubare lo stipendio, perché si è un po’ zoppi o claudicanti. Dopo avere compiuto questa digressione pazzescamente lunga il narratore viene al punto. Gio e Eli si ponevano il quesito: era opportuno rivelare quello che avevano visto. Sul fatto che fosse giusto non vi erano dubbi. Era eticamente condivisibile, ma che cosa avrebbe comportato? Ci faranno un mazzo così. Ti pare possibile. Eli attaccò, se andassimo a dire che il liceo piccolo borghese perfetto senza macchia è in mano a cocainomani rischiamo una denuncia per calunnia e un processo dal Tribunale Speciale Per La Difesa Del Liceo. Sui giornali di destra e di sinistra moderata saremo additati come due fighetti radical-chic. Decisero di telefonare, comunque, al signor S., ma le linee non erano mai state così disturbate. Mister Ics, Pancrazi, Giorgino e Paperini erano attenti osservatori, le microtelecamere nascoste aiutano molto.
Nella piazza principale i manifestanti si radunavano molto lentamente, perché molti di essi venivano fermati dalla polizia. C’erano molti striscioni di scuole e molti provenienti da molte fabbriche della città e dalla provincia. Volti anziani segnati dal tempo si mescolavano a volti giovani, imberbi. Dalla periferia arrivavano gruppi di persone, anziani con il cappello parlavano animatamente tra loro. Alcuni arrivavano con l’autobus, che si era fermato un po’ prima a causa dell’afflusso abnorme di persone, altri arrivavano con la bicicletta, mentre i più atletici arrivavano eroicamente a piedi. Tra questi vi era chi discuteva amichevolmente, ma anche scontrandosi, con giovani di vario tipo. Alcuni avevano un’aria tranquilla e distinta, direbbero i benpensanti. Altri avevano l’aria scapigliata e vagamente selvaggia che tanto impauriva le signore con la pelliccia che passeggiavano spesso lungo quelle strade del centro. I volti erano tanti, così come le età e le nazionalità. Abbondavano i volti con la pelle scura e le parlate esotiche, così come i modi di vestire. In quella città si stava bene e l’abbigliamento di molti dei suoi abitanti lo testimoniava. Si muovevano sereni, qualcuno direbbe, con giovanile incoscienza. UN MONDO DIVERSO E’ POSSIBILE ANOTHER WORLD IS POSSIBLE UN OTRO MUNDO ES POSSIBLE, gridavano quelle piccole donne e quei piccoli uomini che camminavano verso il concentramento, che brutto nome, della manifestazione. Il concentramento sarebbe dovuto avvenire nella grande piazza, che si stava riempiendo inesorabilmente dalle prime ore della mattinata. Davanti ad un’edicola in via Ugo si erano dati appuntamento i ragazzi del collettivo, Giò ed Eli compresi. Quando arrivò Giò era visibilmente preoccupato, indossava il casco del motorino che suo padre aveva voluto a tutti i costi che si infilasse. Credo che ti servirà, ho paura che tu tornerai a casa con la testa rotta. Eli aveva una giacca sportiva, con sotto la felpa con il cappuccio all’ultima moda. Quando se la metteva, gli studenti e gli insegnanti di buona famiglia del liceo la rimproveravano, perché sostenevano che una comunista non dovesse avere dei gran intappi. Qualcuno arrivò a dire, come il loro compagno nobile ed intellettuale, tal Gioacchino Curculioni dei Medici, che Marx aveva scritto, nel Manifesto, testo da aborrire, che i comunisti dovevano vestirsi di stracci per essere fedeli alla proprie nefande nefaste criminali idee. Eli aveva dovuto litigare con il padre, prima di venire alla manifestazione. Il padre non aveva approvato la sua scelta, secondo me non serve a nulla. Voi pretendete di risospingere verso l’alto la pioggia che ci cade sulla testa. Siete solo dei poveri, teneri illusi. Le ingiustizie ci sono, ma bisogna provare a risolverle partendo da una realtà come quella del quartiere. Mi sembra che questa sia tutta retorica. In ogni caso, vai pure, le aveva detto. Non voglio interpretare la parte del genitore antidemocratico, questo le aveva detto. Alberto, l’infame frocio ballerino, come direbbero i benpensanti, era venuto con il grande imbarazzo nel cuore che gli era costata la sorpresa che aveva avuto alla scuola di balletto. E pensare che una volta la danza classica era vietata alle donne. Si chiama danza classica, perché è originaria del ‘700, quando non ci si vestiva certo con i jeans. I nomi dei passi sono bellissimi eleganti e melodiosi. Arabesque- degagè- port de bras, rond de jambes, à – la – première. Aveva lo sguardo basso, quando arrivò all’appuntamento con gli altri ascoltava il walkman, come fanno tanti ragazzi della sua età. Quello che sei per me è inutile spiegarlo con parole, con le note proverò… Faceva la canzone, che era di un gruppo di terroni sporchi comunisti. Di questi tempi è sempre necessario precisare le persone di cui si sta parlando, c’è sempre il rischio della censura. Ragazzi, ho una paura fottuta, disse Gio, qui ci legnano di brutto. Eli rispose, non siamo mica tanto normali, per andare a questa manifestazione. Fa un freddo porco, meno male che questa città ha i portici, anzi è nota per i portici. Iniziarono a camminare verso la piazza. Un poliziotto fermò Alberto e lo perquisì. Volle sapere che cosa stava ascoltando con quegli auricolari, temeva che fosse un terrorista in contatto con la base. Si sa, di questi tempi, con quel tipo curioso, alto alto, con il vestito bianco e la barba lunga, bisogna stare attenti. Molto lentamente si avvicinarono alla piazza, decisero di fermarsi sotto una lapide, piccola e striminzita, che ricordava dell’omicidio di tal Zamboni, un ragazzo che fu linciato, perché incolpato dell’attentato al duce, che era stato compiuto da qualcun altro. Un esponente di quel partito che non è più fascista l’aveva definito un terrorista, paragonabile ai terroristi di Al Qaeda. Lungo la strada Gio si era messo a raccontare degli ultimi mp3 che aveva scaricato da Internet e delle madonne che aveva tirato suo padre, quando era arrivata la bolletta del telefono. Limp bizkit, nofx, gli piaceva un po’ di tutto… Sì, sì, sempre, con ‘sti mp3, mi hai fatto aspettare fino a mezzanotte per dirmi le risposte del questionario sulla storia del Milan. Che mi frega di Aldo Maldera? Se tu non conosci il Milan degli anni settanta non sei nessuno nella vita, gli rispose il ragazzo. Alberto intervenne, io so appena dove sta Milano… Il prof è talmente rinco che si può copiare come si vuole. In piazza aspettarono almeno 40 minuti prima che il corteo si muovesse. I ragazzi si misero dietro ad un camion sul quale era montato uno stereo da migliaia di watt.
Ci sono persone nella vita che vivono dell’ottimismo della volontà e del pessimismo della ragione. Ci sono tanti che si credono uomini e donne e, in realtà, sono pulci. Ci sono le pulci di buona volontà, quelle che combattono contro i mulini a vento, e ci sono le pulci senza speranza, che credono di essere dei giganti e invece sono solo delle mosche cocchiere. Quelle che camminavano per quelle strade erano pulci di buona volontà che combattevano contro dei mulini a vento. Come mai come mai noi non decidiamo mai, d’ora in poi, d’ora in poi decidiamo solo noi.. L’ottimismo della volontà a volte è permeato di follia. Le pulci di solito stanno sui cani e un po’ li disturbano, è questo il loro compito da migliaia di anni. In piazza c’erano anche delle altre pulci, i tutori dell’ordine, che stavano lì a difesa dei cani. Forse credevano essi stessi di essere i cani. I tutori dell’ordine erano in tanti, sembravano tanti Robocop. Indossavano i caschi, si proteggevano con gli scudi e stavano estraendo i manganelli, i tonfa, che avrebbero dovuto far cambiare idea a quelle pulci che manifestavano. Ad un certo punto quel grosso cane che era l’ordine costituito decise di togliersi di dosso quelle pulci. La schiera compatta di solerti tutori dell’ordine partì alla carica contro quelle zecche comuniste, che iniziarono a disperdersi. Gio ed Eli iniziarono a correre per una strada isolata, sul capo del ragazzo si abbatté una manganellata e, in breve tempo, quella sporca zecca comunista finì a terra. La ragazza urlava Bastardi non potete, ma quei solerti tutori dell’ordine si affrettarono a colpire con uno di quei tonfa anche lei che cadde a terra con il viso insanguinato. I due ragazzi venero ammanettati e caricati sul cellulare, che non è un oggetto elettronico che serve per mandare sms e mms. Alberto era riuscito a nascondersi in un cortile interno di un vecchio palazzo del centro di B. Ora non li trovava e non si dava pace. Il cellulare era ingombro di altre sporche zecche che insozzavano con il loro sangue maledetto quel veicolo, pagato con i soldi dei bravi cittadini onesti. Lo scrittore deve ogni tanto usare certi vocaboli all’indirizzo dei comunisti, non si sa mai di questi tempi. Ma torniamo al racconto. Mentre le sporche zecche comuniste venivano giustamente punite per avere manifestato, dei ragazzotti con la tuta nera spuntarono miracolosamente da un furgone bianco parcheggiato nella zona. Questi ragazzotti avevano mazze da baseball con le quali incominciarono ad infrangere le vetrine dei negozi e degli uffici e i vetri di quelle poche automobili, che erano ferme lì. La polizia li lasciava passare, perché era intenta a sfasciare la testa ai rossi che manifestavano. Il lettore tenga presente che si intendono per rossi anche i boy-scouts e le suorine. Chiunque si oppone al solenne ordine costituito è un rosso. Una di quelle suore comuniste aveva il volto insanguinato, un boy-scout con i pantaloni corti in quel giorno con 2 gradi venne ammanettato da un tutore dell’ordine che gli urlava comunista di merda, comunista di merda, ti inculo. Il ragazzo, che avrà avuto all’incirca 14 anni, recitava il padre nostro. Padre nostro, che sei nei cieli, sia fatta la tua volontà. Mentre succedeva tutto ciò in quelle vie dai nomi antichi come via Ugo Bassi e via Indipendenza il cellulare sfrecciava a tutta velocità per quelle strade sfiorando con le ruote anche qualche manifestante che scappava. I tre tutori dell’ordine alla guida gridavano, vi ammazziamo tutti comunisti, siete finiti pezzi di merda. Faccetta nera, bell’abissina, aspetta e spera che già l’ora si avvicina. Quando saremo a Macallè, noi ti daremo un’altra legge e un altro re. Faccetta nera, sarai romana, noi per bandiera ti darem quella italiana. Quando saremo a Macallè, noi ti daremo un’altra legge e un altro re. Gio guardava nel vuoto senza espressione, Eli piangeva di rabbia. Arrivati alla questura, le zecche furono fatte scendere e condotte nei sotterranei. Eli urlava, perché, perché, non è giusto. Un poliziotto mascelluto la trascinò per un braccio e la chiuse in un bagno. Stai zitta troia, che dopo ti stupro, le disse. Un omaccione costrinse Gio in ginocchio: dovete stare così tutti, comunisti di merda. Il ragazzo, che aveva il volto imbrattato di sangue, si accorse che alla parete c’era la foto di un altro omone mascelluto, tal benito mussolini, che qualcuno aveva definito il più grande statista del secolo. Anche in un’altra caserma, saltata in aria in un paese lontano, c’erano foto di quell’omone. Bacia la foto, maiale, bacia la foto, gli gridavano due poliziotti inferociti, mentre le ore passavano. Non la bacio, la tua foto del cazzo. Il ragazzo era un temerario e la sua temerarietà gli valse come premio, se così lo si può definire, una serie di calci un po’ dappertutto. Accanto a Gio c’erano altri ragazzi, in ginocchio, ammanettati, con le braccia contro il muro, bendati. I poliziotti tolsero loro le bende per mostrare meglio il trattamento riservato a chi alzava troppo la testa. Un ragazzo, che aveva distolto lo sguardo, ricevette una violentissima sberla. Il problema di quei poliziotti era riuscire nel loro intento, persuadere, anche con le maniere forti, quel ragazzaccio di Gio che era proprio il caso di baciare la foto del duce.
Alberto era uscito dal nascondiglio, perché aveva visto che la strada era sgombra. Nessuno lo aveva notato tranne un bambino che osservava da una finestra di quell’antico palazzo. Erano ormai le due del pomeriggio, non si udivano rumori, tranne qualche sirena lontana. Usciva, guardandosi intorno in modo circospetto. Dovette tornare a casa a piedi, perché non c’erano mezzi pubblici a disposizione. Il suo telefonino suonò: che è successo, che è successo, abbiamo provato a telefonarvi tutta la mattina. Era sua madre. C’è stato un gran casino, tanti hanno preso un sacco di botte. Io sono riuscito a scappare ma Gio ed Eli sono stati arrestati, non so dove sono. Mi hanno telefonato i loro genitori, dicono che i loro cellulari non rispondono.
Un cellulare rotto non serve molto per rispondere, uno dei solerti tutori dell’ordine che avevano arrestato i due reprobi aveva sequestrato loro i cellulari e li aveva calpestati con uno stivale numero 46. I poliziotti avevano trovato il modo di risolvere il problema di cui si scriveva poc’anzi. In due avevano afferrato Gio e gli avevano sbattuto la testa contro il muro. Gio non riusciva più a vedere nulla, il sangue era troppo. Nel frattempo Eli era sola, piangeva. Doveva pure trovare qualche maniera per passare il tempo. Il tempo in prigione scorre lento, o forse non scorre proprio. Il suo ragazzo, che non stava molto bene, era stato trascinato dai solerti tutori dell’ordine in una cella nei sotterranei di quell’antico palazzo. Il signor S. aveva acceso la televisione perché voleva rendersi conto di ciò che stava succedendo. Aveva ascoltato la radio. Ci credeva, ma non riusciva a crederci, come poteva crederci? Aveva sempre creduto di vivere in uno stato democratico, dove venivano rispettate le garanzie dei cittadini. Era un povero illuso, che ogni tanto si svegliava dal suo torpore. Ogni tanto prendeva coscienza. Questa Italia l’abbiamo costruita noi, come è ridotta ora, diceva.
Alla televisione bacchettavano i violenti no global. Con la scusa della protesta se ne approfittano per danneggiare i poveri poliziotti che stanno lavorando. Sfasciano le vetrine, sfasciano i negozi, sono dei barbari. Le immagini che venivano mandate in onda erano abbastanza confuse. Si vedevano gli scontri con la polizia, che collaudava i nuovi manganelli sulle teste di quegli sporchi manifestanti, ma a sfasciare le vetrine erano dei giovanotti in tuta nera che passavano indisturbati vicino alle automobili della polizia. Il signor S aveva visto, che in un paese straniero molto potente, c’erano dei prigionieri che venivano maltrattati dai rappresentanti di un paese libero. I prigionieri erano incaprettati e incappucciati. Erano trattati peggio delle bestie. Il vecchio pensava che in Italia non sarebbero mai potute succedere certe cose, anche se, a volte, si era dovuto ricredere. Il padre di Eli era incavolato nero, l’avevo sempre detto che quei no global non avevano futuro, l’avevo sempre detto. Sono convinti che con la violenza si possa risolvere tutto. Cosa credono, che si possa rompere i vetri delle banche per fare la rivoluzione. Le sinistre non dovrebbero legarsi con quel genere di persone. Era appena rientrato dal lavoro, non aveva ancora acceso la televisione. La moglie scuoteva la testa, cosa stai dicendo, cosa stai blaterando. Mi ha telefonato la madre di Giovanni, l’amico di Eli, mi ha detto di aver saputo dal loro compagno di scuola Alberto che i ragazzi sono stati arrestati e picchiati dalla polizia. Ha detto che stavano manifestando tranquillamente, quando c’è stata una carica a freddo, la chiamano così. L’uomo aveva l’aria perplessa, rimase in silenzio per qualche secondo poi disse, io credo a mia figlia, non ho motivo per dubitare, ma non vorrei che le fosse venuto un momento di rabbia e si fosse immischiata in un gruppo di provocatori. Questi usano degli argomenti che si possono anche condividere, ma sono i mezzi che sono sbagliati. Quando parlano male delle banche che finanziano il traffico di armi non posso che essere d’accordo con loro, ma a che serve spaccare una vetrina? A che serve? Alberto, io credo che né nostra figlia, né i suoi amici possano mai compiere certe azioni. Ho conosciuto anche i suoi amici, mi sembrano giudiziosi. Adesso bisogna chiamare l’avvocato. Rossini prese il telefono e contattò l’avvocato Nanni, una donna piacente sulla quarantina, che aveva esperienza di questo tipo di casi. L’avvocata inforcò lo scooter, subito dopo aver ricevuto la telefonata, e si precipitò alla questura. Domandò della sorte dei ragazzi, ma non ebbe risposta da nessuno dei dirigenti con cui parlò. Dentro la questura c’erano altri avvocati che chiedevano delle sorti dei loro assistiti, ma non ricevettero risposta. AD un certo punto arrivarono anche i genitori di Gio, i quali non furono nemmeno ascoltati.
Contra i pinsir un gran rimedi l’è e’ bicir, così sentenziavano e sentenziano i romagnoli poveri, quando, molte sere mangiavano solo cipolla e un po’ di piadotto fatto più di farina di formentone che di grano.[3] Cosa serve per rimediare ai pensieri? Dario Fo è il più grande autore e attore teatrale dell’era moderna. Egli sostiene l’importanza della commedia grottesca, perché non crea la catarsi come nella tragedia, che provoca il pianto e fa cadere l’indignazione. Questo è certo, ma è anche vero che l’orrore sconvolge, toglie l’equilibrio mentale. Si rischia la malattia. Molte volte bisognerebbe evitare di prendere il mondo troppo sul serio, ma, in quella situazione, come era possibile? A dire il vero, non era neanche la prima volta, bastava pensare ai tempi di Scelba. Era capitato molte altre volte, tra le quali a Reggio Emilia. Morti di Reggio Emilia, uscite dalla fossa, fuori a cantar con noi Bandiera Rossa. Compagno cittadino, fratello partigiano, teniamoci per mano, in questi giorni tristi. Di nuovo a Reggio Emilia, di nuovo là in Sicilia, son morti dei compagni per mano dei fascisti. Ora S. si sentiva più anziano del solito, anche se, forse, non era mai stato giovane. Rimase bloccato a sedere, non riusciva ad alzarsi. Non sapeva perché. Aveva visto anche la foto di un ragazzino accasciato a terra, con un occhio pesto, preso a calci dappertutto dai solerti tutori dell’ordine.
La polizia aveva sequestrato delle bombe molotov ai manifestanti e aveva dovuto assalire una scuola, dove alloggiavano i manifestanti, facendo schizzare il loro sangue sulle pareti, perché essi, a loro dire, avevano lanciato contro le forze dell’ordine dei sassi. Erano entrati di forza nella scuola e una zecca comunista aveva tentato di accoltellare un appartenente alla Benemerita.
L’avvocato Costanza Nanni conosceva tutti i dettagli del codice penale e cercò di sapere in tutti i modi la sorte dei ragazzi. Seppe anche di un gruppo di avvocati, che stavano cercando di difendere assieme i diritti dei detenuti, e si mise immediatamente in contatto con loro. Riuscirono anche a mettersi in contatto con un deputato che faceva riferimento a quel noto partito della sinistra radicale. Egli cercò di capire dove erano state portate quelle sporche zecche comuniste.
L’anziano scrittore guardava la televisione: c’era una conferenza stampa. Stavano parlando degli energumeni con il passamontagna, con la scritta polizia sulla casacca che indossavano. Erano le famose teste di cuoio, così venivano definiti i corpi speciali di polizia e carabinieri superaddestrati per operazioni particolari: GICO, ROS, POS, NOCS, TACS, GSM. Erano grandi, grossi e mascelluti. Va, la vita va, con sé ci porta, ci promette l’avvenir, una maschia gioventù con romana volontà combatterà. Verrà, quel dì verrà, che la gran madre degli eroi ci chiamerà. Così cantavano all’inizio della conferenza. Verrà, quel dì verrà, che la gramagnna e i macaroun a’ s’ magnarà. Il questore iniziò a parlare con tono solenne: abbiamo esecutato il sequestro di numerosso materiale atto ad offendere. Questo è un grande successo dello stato e dell’ordine costituito. Abbiamo stroncato la violenza. Siamo rammaricati per le gonsequenze collaterali come l’uccisione della Di Leo Marianna e della Frabboni Martina pericolosissime delinquenti comuniste potenziali terroriste, le quali avrebbero comunque rappresentato un sicuro pericolo essendo anche parenti ed affini di terribili bolscevichi. Marianna e Martina non si conoscevano, avevano 15 anni. Martina frequentava i boy-scouts. L’uccisione con un colpo di pistola alla tempia sparato da molto lontano, potrebbe essere stato un cecchino, rappresentava sicuramente l’extrema ratio per eliminare due individui di 40 kg scarsi di peso, come erano quelle due ragazze. Un poliziotto parlò, cercando di celare l’accento di B., dobbiamo essere determinati nel frenare questi delinquenti rossi, come lo furono i nostri avi il 28 ottobre 1922, per garantire la democrazia, la legalità e il rispetto dell’ordine costituito contro la violenza. Perché, se non saressimo stati così determinati, quelli lì si sarebbiro conquisstati la città, abbeverando i propri destraieri alla fontana di lui lì, quello che ci ha il pisello di fuori, in centro. Il modo di parlare di quel carabiniere colpì molto S. Neanche lui sapeva il perché. La conferenza stampa terminò con un canto corale dei poliziotti e del questore, tutti in piedi, di quello che era stato proposto come nuovo inno nazionale. Salve, o popolo di eroi. Salve, o patria immortale! Sono rimasti i figli tuoi, con la fé nell’ideale. Il valore dei tuoi guerrieri, la virtù dei pionieri, la vision de l’Alighieri oggi brilla in tutti i cuor. La proposta del nuovo inno era stata inoltrata dall’onorevole Fogna, di un partito erede della grande tradizione liberale. A bassa voce, un poliziotto disse, mo guarda che bella canzone, parlano anche della mia amica Federica Brusafazzi. La chiamiamo Fe. Mo soccia, non me ne ero mai accorto. Son troppo contento, oh! Il servizio successivo trattava della torbida vita di Marianna Di Leo e di Martina Frabboni. Le reprobe avevano frequentato persino uomini sposati e una di loro aveva pure avuto un figlio. La showgirl Epicurea Pecorazzi spiegò che la Famiglia è il principale valore della società. Se sarebbimo senza famiglia, come faressimo, disse, guardando la telecamera. Lei sì che se ne intendeva di famiglie, ne aveva 3 o 4. È naturale che chi non ama la famiglia porti le molotov, come la polizia ha dimostrato per la Di Leo e la Frabboni.
A volte l’orrore sconvolge, ma, dopo un po’, ci si abitua. È un’espressione molto brutta da usare. L’impressione iniziale, suscitata da quello che era successo, si stava tramutando nello sguardo disincantato dell’uomo anziano che, oramai, ne ha viste troppe. Decise di andare a mangiare da Nevio.
Nella Teogonia di Esiodo si narra dello scontro tra le divinità materne, del caos, e le divinità dell’ordine, del cosmo, governate da Giove.[4] Il sangiovese è sangue di Giove, portatore dell’ordine. Il vino è una religione, caratterizzata da importanti riti secolari, testimoni di un sincretismo che resiste da secoli. Par San Simon us tira fora la bota de canton. Il 28 ottobre si cominciava a spillare il vino buono, dopo che si era esaurito quello rimasto nei piccoli recipienti, non collocato nelle capaci botti di rovere. Par San Martén us bev e’ bon ven, questa immagine ricorda bacchiche brumalia quando uomini mascherati da caproni amavano apparire becchi nell’aspetto e forse anche nella sostanza.[5] I satiri[6] personificavano la natura selvaggia e facevano parte, con i sileni, del corteo di Dioniso, ed erano accompagnati delle Ninfe. Giulio Romano li raffigura in un affresco del 1524-25, presente nella sala di Amore e Psiche a Palazzo Te, a Mantova. Le testimonianze in campo archeologico e letterario li presentano come esseri metà uomo e metà capra. Ai rituali in cui c’erano persone mascherate da satiri si ricollegano gli inizi della tragedia greca. L’avvento e l’ascesa del cristianesimo portano, ad esempio, un poeta come Jacopo Landoni, grande amante del frutto di Bacco, ad inneggiare al santo protettor Giovese. Landoni andava a bere all’osteria della Zabariona, della Pifania, della Sartina, da Cagò e da Mastellina. Possiamo citare anche Olindo Guerrini e Giuseppe Piolanti, come altri adepti di questa religione enofila.[7] Tra i seguaci di questo culto si può annoverare anche S. A qualcuno quest’uomo potrebbe apparire insensibile e strano, soggetto ad una patologia schizofrenica, ad uno sdoppiamento di personalità.
Decise di telefonare a Borri per invitarlo a cena da Nevio. Carissimo, non sei sconvolto per quello che è successo. Lo sono, lo sono, ma se non mangio come si deve non ragiono, replicò S. all’iniziale stupore di Borri. Ci vediamo tra circa 30 minuti davanti a casa tua. Parcheggiò la sua vecchia automobile ben tenuta e salì da S. Il narratore si è dimenticato di specificare che si stava approssimando la festività ora dedicata a blasfemi sacerdoti del dio Mercurio, un tempo denominata dies solis invicti. Le strade di C. erano adorne di decorazioni e le vetrine dei negozi illuminate più del solito. Entrarono nel ristorante e Nevio rivolse loro un timido ed impaurito sorriso. Il sorriso era impaurito perché aveva visto la faccia di S., terribilmente nera. Nevio, dacci un tavolo d’angolo, e spegni immediatamente quella cazzo di televisione. Il ristoratore eseguì prontamente. Borri non accennò nemmeno a quell’argomento, capiva che avrebbe potuto irritare S. Avrebbe potuto farne menzione solo a pranzo finito, forse. L’opposizione tra il regno della misura, la dimensione dell’apollineo, e la dimensione del dionisiaco è la base del pensiero. Per essere più precisi, non si tratta di una vera e propria opposizione. Sono due parti dello stesso intero, divise dalla spezialisierung[8] goethiana crudele ed impietosa. L’intero è rappresentato in vari modi, una di queste è la danza classica. Il dionisiaco è il ballo sfrenato, è il vino. Il magistero della chiesa ha esaltato una religiosità dura, impietosa, primitiva, spirituale. Anche il vino è stato colpito. Esso veniva ritenuto veicolo di mali e disordine, per questo motivo o pretesto venivano emanati editti contro l’abitudine di piantare vigne, anche se lo scrittore Massimo Grillandi definì la Ca De Ven di Ravenna come la cattedrale di San Giovese. Il vino è il complemento ideale per una cena elegante o la consolazione per i poveri.[9] Anche il povero S. aveva bisogno di essere consolato e un Sangiovese superiore affinato in barrique assolveva a questa funzione degnamente. Alla fine del pasto S. si era molto rasserenato e Borri credeva di potere toccare quell’argomento, ma quando vide la faccia di S. dovette recedere dal suo proposito. Il ragioniere si era reso conto che quell’uomo era interessato a quel che stava succedendo, ma aveva i suoi tempi. Si salutarono e S. se ne andò a casa. Si mise alla scrivania e telefonò ad Ascione. Non capiva perché lo faceva. Qualche maligno potrebbe insinuare che lo stava facendo per cercare sostegno.
Il cellulare di Ascione aveva una risponderia un po’ lunga: E damme ‘a mano, na zingara mm’ha ditto ca, quanto pe’ destino puorte scritto, t”o voglio fa’ sape’, ce sta n’amico, buono quanto meje, ca te vo’ bene assaje, e tutto fa pe’ te![10] S. riattaccò pronunciando frasi poco urbane all’indirizzo di Ascione. Va bain a fer dal pepp’, esortazione all’autoerotismo nel vernacolo petroniano. Ricompose il numero. E ripartì la risponderia, Vattenne, zingara, nun mme fa ridere! Chieste so’ chiacchiere ca mme vuo’ vennere pe’ verità! [11]Decise di pazientare. Ciao Asciò, come stai? Ahh, che piaciere. Oggi si sta freschi, ahhh, che bell’aria freescca. Anche troppo, stiamo sotto zero Gerà. Ah, già, è vero. Sto nu’ poco turbato per quello che è successo. Pure io sto turbato, tagliò corto S. Tengo novità su Marini e Castaldi. S. rimase allibito. Io però avrebbi voglia di vedervi. Che, mi vieni a trovare? Boh, non so, vedremo. Forse viene Gianni a trovarti. Alla messa ci vai, a pregare l’amico nostro Gesù? Non ci penso neanche, non ho amici. Ciao. Nce’ simmo a la partenza… lo mme veco… addio. Napule bello mio, non te vedraggio cchiù,[12] intonò il carabiniere. S. riattaccò. Faceva un freddo cane. Per lo meno non nevicava e non rischiava nemmeno. Preparò i bagagli e decise di andare a B. La strada era priva di automobili. A momenti si rischiava di addormentarsi. Pensò di non dire nulla a Gianni, non voleva dargli soddisfazione. Gianni era un rompiscatole, ma gli voleva bene, in fondo.
Arrivò a casa propria e si sentiva a disagio. Non era quello il suo mondo, anche se viveva in una zona abbastanza silenziosa. Si sentiva fuori posto, perché quella casa era troppo elegante, troppo all’avanguardia, troppo tutto. Il suo vicino di casa Rosi era un maniaco dell’arredamento: studiava tutte le riviste di design. Un giorno S. ebbe una pessima idea: si era rotto lo scarico del water. Pensò, già che ci sono potrei far ristrutturare il bagno, ma come faccio, non me ne intendo. Chiese informazioni a Rosi, il suo vicino di casa di B., che gli disse tranquillamente, potrei darti una mano. Perché no, rispose l’anziano scrittore. Questa risposta rappresentò l’inizio dei suoi guai. Il giorno dopo Rosi si presentò con in mano circa 3 chilogrammi di riviste. Già che ci sei, perché non ristrutturiamo tutto? Ora che hai fatto trenta, fa trentuno. Visto che ci sarà un cantiere è sicuramente più conveniente. Te lo consiglio sia per motivi burocratici, che per motivi tecnici. Lo guardò con aria autorevole, quell’aria che contraddistingue chi ne sa tante, ma proprio tante, di argomenti tecnici e si rivolge a chi è ignorante in materia, e autoritaria, poiché aveva notato lo sguardo timoroso di S. L’anziano scrittore gli voleva bene e decise di affidarsi a lui. Il vicino gli preparò un capitolato dei lavori con un sacco di voci, tra cui un impianto di climatizzazione, che fu delle prime ad essere depennate da S., il quale detestava ferocemente i condizionatori. S. iniziò a leggere quelle riviste, ma le richiuse con orrore dopo poche pagine, terrorizzato da quei termini specialistici incomprensibili e del tutto autoreferenziali che le caratterizzavano. Quei giornali avevano dei nomi particolari: Io Arredatore, Tutto Arredo, L’Arredo Perfetto, L’Arredatore Strafico, The Arredamento Journal. Il narratore intende tralasciare gli approfondimenti sull’arredamento, in quanto non è onnisciente, vivaddio. Entrò in casa e accese la televisione, si parlava del caso di un’alunna affetta dalla sindrome di Down che era stata malmenata da un suo compagno. Egli aveva anche scritto delle frasi naziste e disegnato svastiche sulla lavagna. Fu intervistato Mister Ics che lodò il grande civismo del ragazzo picchiatore e di tutti quei compagni che avevano riso e scherzato osservando quella scena. Il prof. Marini dichiarò che i mongoloidi di merda facevano schifo e che andavano schiacciati. Paperini parlò: ERAT – PULCHERRIMUS – STAT- CUM – TIBI. MONGOLOIDI – DELENDI – SUNT. POST- HABERE – LIGATUM – PETRUM – PAN – PORTA – IN – ALTO – MANUS – SEQUITUR – TUUM – CAPITANUM – MOVE – IN – TEMPO – BACINUS – SUM – CAPITANUS – UNCINUM. WWW – ME – PLACUIT- TU. Il narratore comunica che ha utilizzato le lettere maiuscole per sottolineare l’importanza delle affermazioni di quell’insegnante. Il preside organizzò la FONDAZIONE JOSEF MENGELE PER LA MORALITÀ E L’EDUCAZIONE DEI GIOVANI. Organizziamo questa fondazione per rendere giustizia alla memoria di un coraggioso medico ingiustamente perseguitato dallo stalinismo. Per fortuna quelle scene, in cui viene giustamente punita una mongoloide, sono state filmate e diffuse in Internet, quell’atto di grande educazione civica ha ricevuto una testimonianza filmata, dichiarò Mister Ics durante la grande cerimonia che venne organizzata dal liceo per quel ragazzo, che venne ricompensato con una borsa di studio di € 10.000,00 che gli avrebbe consentito di studiare all’Università di San Giorgetto Almirante. Paperini intervenne con aria solenne, ma parlò in italiano, e non nel suo bel latino. Quel ragazzo ha adempiuto al disegno divino. Se quella è nata mongoloide, significa che è segnata dalla tragica ombra del peccato e deve essere punita perché infesta con la sua presenza il mondo di noi persone normali. Poiché ella non ha proceduto all’unico gesto che le sarebbe consono, il suicidio, la mano del signore per via di quel ragazzo l’ha punita. Amen.
- prese l’automobile e arrivò alla caserma. Chiese al carabiniere di guardia dove fosse Gerardo. Se lo saprei dove stesse il Maresciallo Ascione glielo direbbi, ma non lo so e telefono. Chiamò un numero interno. Mariscià, ci sta n’amico suo che la cerca. Che faccio? Ah, sia ringraziata Sant’Assuntina, l’amico mio qua sta arrivando, disse il carabiniere. Uscì dall’ufficio da corsa. Alleluja, Aaalleluja, Aaalleluja! Sei arrivato! Per te intono un canto di letizia. D’ammore, chi mme’ncontra, che vo’ parlà mme pare…[13] S. lo guardò male. Gli strinse la mano. Si avviarono per la strada. Ascione gli mise un braccio sulla spalla. Amico mio, ci stan novità, news. Ci sta Lipari che ha riaperto le indagini su Castaldi e Marini. Sarà fatta l’autopsia sui cadaveri. S. rimase allibito, lo guardò. Come hai fatto? Lascia fare, lascia fare ad Ascione tuo. Ora nessuno sa ancora niente, tra qualche giorno ci saranno i risultati degli esami autoptici. Non ti dico altro. E intonò ‘E damme ‘a mano ca te farrà piacere… Te voglio anduvinà tutt”e penziere ca stanno ‘ncap’a te! Tu tiene un grante gran signoore…[14] Gerà, hai reso, lo squadrò malamente. E quei ragazzi arrestati? Nun lo sacciu. S. scappò prima che Gerardo ricominciasse a cantare.
[1] Sottolineatura del narratore.
[2] Cfr. AA.VV., L’Enciclopedia, UTET-L’Espresso, Novara-Roma 2003
[3] cfr. http://www.piadinaonline.com/piadinaonline/buon_bere_di_romagna.htm
[4] Cfr. http://www.piadinaonline.com/piadinaonline/buon_bere_di_romagna.htm
[5] Idem
[6] Cfr. AA. VV., l’Enciclopedia, Utet-L’espresso, Novara-Roma 2003
[7] Cfr. Nota 16.
[8] Cfr. Nota 7.
[9] Cfr. Nota 16.
[10] Cfr. testo di ‘A Zingara, canzone classica napoletana di Furnò-Valente da http://www.sorrentoradio.com/prova/testinapoli/doc043.htm.
[11] Idem.
[12] Cfr. testo di Addio a Napule! Di Bolognese da http://www.sorrentoradio.com.
[13] cfr. testo Addio a Napule di Bolognese da http://www.sorrentoradio.com/prova/it.htm
[14] cfr. testo ‘A Zingara di Furnò-Valente da http://www.sorrentoradio.com/prova/testinapoli/doc043.htm.