legalità

Grazie!

Questo è il primo di una lunga serie di ringraziamenti. Voglio ringraziare i miei followers e chi ha messo “mi piace” ai miei post, chi ha scritto commenti. Continuate a scrivere commenti, parlate ad altri di questo blog. 

Cerco di comunicare le mie emozioni, cerco di emozionare le persone che seguono questo blog. Cerco di parlare del valore personale, ma anche politico, che per me ha la scuola. Una scuola pulita, una scuola dove si studia perché si ha voglia di studiare, dove si rispettano le regole, perché le si vogliono rispettare, senza troppa paura di essere puniti, è un baluardo contro la crisi, ci fa pensare che non tutto sia perduto. Ci sono ragazzi, come quelli che ho descritto e descriverò, che sono come una boccata d’aria pulita. Spero che il gruppo cresca, intanto grazie.

A presto.

M.

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essere una società

trovarsi di fronte a 21 persone è impegnativo, significa trovarsi di fronte a 21 teste, 21 mondi diffferenti. questo è ovvio e semplice a dirsi, un po’ meno a farsi. Ci sono quelle giornate in cui l’attenzione e la concentrazione vanno a farsi benedire e proprio non si riesce a seguire la lezione, specialmente se alcuni, come il solito M. di cui ho parlato in un altro post, ma anche C.B., di cui ho parlato in un altro post, fanno il loro numero, come altri, ma forse più di altri. Non ho mai creduto al metodo della nota di demerito sul registro, lo ritengo l’extrema ratio, quando proprio non si riesce a fare diversamente. Penso, inoltre, che non si debba abusare di questa misura punitiva. CB ha una simpatica faccia da furbetta, M. pure, ma ci sono anche altri che si fanno coinvolgere: li richiamo una, due, tre volte, alla quarta-quinta volta, decido di punire coloro i quali si sono distinti, secondo me, per il caos, CB e M. Tutti ci rimangono male. Arriva l’intervallo, ritornano i compagni che studiano un’altra lingua, che sanno della nota. Due-tre ragazze che non sono mie allieve cercano di convincermi a cancellare la nota di demerito, io, per il momento, non cedo. Me ne vado dopo l’intervallo e, durante l’ora successiva, rimetto piede in quella classe, per dire che chi non ha avuto ricevuto la nota, avrebbe ricevuto un 2 sul registro. Il giorno successivo non vado a scuola.

Quando arrivo nell’aula i ragazzi sono abbastanza scuri in volto, vogliono spiegazioni. Dico loro che il comportamento della lezione precedente era stato inaccettabile, cito ad esempio quattro ragazze, anche con battute ironiche nei confronti degli altri. Ci sono I e C, che sono due bellezze d’altri tempi, con il viso paffuto, i capelli ricci e lunghi di una, e di capelli neri lunghi dell’altra. Ci sono M. e M., una mora e una bionda, dall’aria gentile e un po’ severa. Loro sono già delle donne, regolari, sembra che non abbiano cedimenti. Quando i contestattori parlano usano toni educati e maturi, riconoscono di non essersi comportati bene, ma affermano di essere tutti corresponsabili del caos della lezione precedentemente e, quindi, di meritarsi tutti una nota sul registro. Ascolto, rimanendo un po’ disorientato dal diluvio di frasi e di pensieri. Alla fine della lezione decido di cancellare la notaa per i due reprobi e di metterne una generale, ma non sono convinto al cento per cento. Escludo dalla nota le 4 ragazze di cui ho parlato prima, ma non sono convinto.

Passo il fine settimana a rimuginare sull’accaduto, mi rendo conto subito di due aspetti. Il primo è che è dispiaciuto più a me che a loro scrivere una nota sul registro. Il secondo è che sono una società. Hanno capito di avere avuto una responsabilità colletttiva, sono un gruppo. Penso di avere avuto pienamente ragione ad arrabbiarmi, ma credo che non abbiano capito la punizione. Penso che sia necessario un gesto coraggioso, dopo aver chiarito loro per bene che hanno sbagliato. Non sono autoritario, ho deciso di basare il nostro rapporto sulla fiducia e la comprensione e debbo continuare in questo modo, costi quel che costi.

Al lunedì devo fare lezione ad una classe che è composta anche da ragazzini molto problematici. Lungo il corridoio vedo CV, una ragazza bionda con gli occhi azzurri, che fa parte di una delle due terze. Le chiedo se loro e quelli dell’altra 3° si possono trovare tutti nell’aula di tedesco, perché devo dir loro una cosa bella. Lei mi risponde sorridendo che gli altri sono ad un’uscita di istruzione. Ci rimango un po’ male, ma fa lo stesso, lei sorride.

Arriva il mercoledì, l’ora di lezione è alle 13. entro in classe con l’aria un po’ accigliata ed inizio a parlare. Critico il loro modo di comportarsi, ribadisco le mie ragioni, ma aggiungo che voglio loro bene e che ho deciso di compiere un bel gesto. Ecco la fine che fa la nota, la cancello con una croce. BM spalanca gli occhi, gli occhi di quella ragazza dicono un sacco di cose. I ragazzi non si fanno trovare impreparati. Prende la parola CF, una delle quattro brave ragazze, e presenta le scuse a nome della classe per il comportamento. Promettiamo di fare meno rumore, quelle scuse sanno di sincerità, gli occhi di CF sono troppo belli per mentire, e di maturità, non promettono di essere perfettti, promettono di impegnarsi per migliorare. Uno dei rappresentanti dell’altra classe, R.T., un ragazzo simpatico a cui piacciono molto le ragazze, ripete le scuse anche a nome dell’altra classe. Sono veri, sinceri e sono una società, sono un gruppo.

togliere, eliminare

alcune volte penso che dovrei scrivere un romanzo. Ho scritto due libri che pochi hanno letto e qualcuno ha apprezzato, ma ho sempre avvertito la sensazione di fare troppo, soprattutto a posteriori, soprattutto quando era passato del tempo dall’uscita di quel libro. Il segreto dell’artista è togliere, è eliminare. Il segreto della vita è eliminare quello che non serve, magari proprio quando ci sembra irrinunciabile. Il segreto della vita è quello di saper cogliere i segnali giusti. 

Quando ho conosciuto, all’inizio di quest’anno scolastico, le mie classi preferite, ho avvertito due sensazioni. La prima era che si trattasse di persone simpatiche e brillanti. il sorriso di S., una ragazza dai tratti meridionali, fu la prima immagine che si presentò davanti ai miei occhi, un giorno di settembre dell’anno scorso. La seconda sensazione era che questi ragazzi volevano studiare, volevano serietà. S. mi parla con tono ironico, ma anche dispiaciuto, della persona che mi aveva preceduto l’anno scorso come di un povero demente non in grado di svolgere questo mestiere. Mi dice, siamo rimasti indietro nella materia. Io ascolto i discorsi di quella ragazza dal bel sorriso, confermati dalle parole e dalle espressioni degli altri, e rispondo molto serenamente, recupereremo il tempo perduto, dovremmo lavorare molto. Quella bella ragazza mora con un bellissimo sorriso è nello stesso banco con una bellissima ragazza mora con gli occhi grandi neri, sono due ragazze mature e determinate, hanno una vita, non sono due nerd. Una delle due è una bellissima ballerina, l’altra va in palestra, hanno amici, non sono due sfigate disadattate. La classe è piena di ragazzi e ragazze intelligenti, ma, si sa, ognuno ha la propria testa. c’è M, M è un ragazzo vulcanico, simpatico ed intelligente. M. ha una voce potente, non starebbe mai fermo, chiede spesso di uscire anche quando non può. Il suo comportamento diventa un problema, anche perché coinvolge nelle sue imprese anche degli altri compagni. La lezione diventa, a volte, difficile. Sono costretto anche a sgolarmi, alle volte mi arrabbio. Un giorno, quando entro nella loro aula, il primo banco che osservo è quello dove ci sono loro. S. e C., le due compagne di banco, per me sono un punto di riferimento oramai, le vedo intente a parlare con M. Quando mi notano, una delle due, S. mi dice, oggi M. sta a sedere in mezzo a noi e lo facciamo star buono, C. annuisce e anche M. annuisce, forse convinto dalle parole e dall’atteggiamento delle compagne. L’impresa delle ragazze riesce quella volta e riesce tante altre volte. Le lezioni vanno meglio, procedono più tranquillamente.

Ho capito che ci deve essere un gruppo, ho capito che una classe non è composta solo da individui, ma è un corpo che ha una vita buona solo se le parti che lo compongono hanno una vita buona. Ho avuto un’altra classe, costituita da ragazzi più piccoli di età, dove la competizione sfrenata tra maschi e tra maschi e femmine su chi dovesse avere il ruolo guida ha creato una situazione che è diventata, molte volte, ingovernabile. Le due rappresentanti di classe, due ragazzine intelligenti e troppo timide, sono state sempre sopraffatte dalla prepotenza di bambocci non cresciuti. 

La mia voglia di lavorare è sempre stata salda con i ragazzi più tardi, mentre ha avuto dei cedimenti con i ragazzini, anche se ci ho provato fino alla fine. 

Mi sono adoperato perché i ragazzi delle terze recuperassero il tempo perduto, con passione e grinta. Penso che la grammatica costituisca la base, penso che offra le basi per ragionare, soprattutto la grammatica della lingua dei crucchi. Abbiamo avuto verifiche, domande durante le lezioni, i ragazzi hanno preparato delle ricerche che dovevano servire come “autoscatto”, cioè dovevano descrivere una loro passione, il loro sport e il loro aspetto della cultura tedesca preferito. Ho ancora quei lavori in una cartella sul computer, che ho chiamato “Adorabili ragazzi”.

Studiamo duramente, ma troviamo anche il tempo di ridere, tra una regola e l’altra. arriva maggio, c’è la prima verifica e i ragazzi non obiettano e poi arriverebbe la seconda, alla fine del mese. I ragazzi mi accolgono, il giorno prima, invitandomi ad aspettare ad entrare. Rimango un po’ basito. Poi, B., una ragazza simpatica, mi dice che posso entrare e trovo tutti e 21 in ginocchio a supplicarmi di eliminare il compito. Quasi mi metto a ridere, poi faccio il sostenuto, insisto, propongo una mediazione, ma mi scontro contro un muro, Si sentono stanchi, hanno lavorato tanto tutto l’anno e non ce la fanno più. Quando vedo la determinazione negli occhi e nelle parole di chi non ha mai smesso di impegnarsi, penso che avrei di fronte due strade: la prima sarebbe quella di impuntarsi e di costringere quelle persone ad affrontare l’ennesima verifica. avrei tutte le ragioni, la scuola finisce tra una settimana e fino al penultimo giorno, almeno, bisogna lavorare. Non ci sono sconti. Poi penso che non sarei capito, penso che il bene della mia idea verrebbe frainteso e recedo, a malincuore dai miei propositi. Il giorno successivo, quando mi presento in classe, sono di umore nero, li sgrido, me la prendo con loro. S. mi guarda male, è terribilmente espressiva, sarà la danza che le conferisce ulteriore espressività oltre a quella naturale che ha, perché prima accetta di annullarci il compito  e poi ce lo rinfaccia. avrebbe potuto costringerci, noi l’avremmo consegnato in bianco e lei ci avrebbe messo 2. Io rispondo che la mia è stata una decisione spintanea e non spontanea, rispondo che non ho potuto fare altro, non riesco a rispondere sul perché io non abbia voluto impormi, anche mettendo 2 a tutti. Primo, perché non avrebbero capito, secondo perché voglio loro un bene dell’anima. Prometto loro che non arrotonderò le medie al rialzo, 6 e mezzo, 7 e mezzo, ecc.

Rivedo quei ragazzi al sabato, a 12, quando torno, c’è ancora S. che mi guarda storto, un po’ meno di giovedì. C’è una collega, simpatica e disponibile, si chiama M., che mi dice, un secondo dopo i ragazzi: senti, anche io li ho portati alla M., oramai ho finito il programma, tanto adesso sono stanchi. Io sono un po’ dubbioso, la collega se ne va, e i ragazzi mi pressano, sono stanchi. Devo andare dal dirigente, dico loro, deve darmi il permesso lui. Vi lascio soli un minuto, mi raccomando non fiatate, altrimenti non vi porto più. Vado dal preside a chiedere il permesso, lui mi risponde, se li riporta indietro sì. La scuola nella quale ho insegnato quest’anno è collocata vicino ad un quartiere residenziale, che ha il nome di un antico strumento per la misurazione del tempo. Questo quartiere residenziale è ricco di verde e di percorsi pedonali. Quando rientro dai ragazzi, comunico loro il lieto evento e loro, naturalmente, sono un bel po’ felici. L’aula si trova al piano secondo, l’aula 27, è tardi, sono le 12 passate, ma una ramanzina la faccio. Mi raccomando, non fate rumore quando si esce dall’istituto, altrimenti vi riporto in aula. Sono bravi e silenziosi. Quando usciamo le loro facce cambiano espressione. Sembrano risorgere. Camminiamo in un gruppo omogeneo, si scherza. Arriviamo ad una gelateria, ci sediamo e qualcuno estrae le carte da briscola. Molti ordinano il gelato, io adoro il gelato, ne compro uno molto grande e lo divoro rapidamente, sotto gli sguardi stupiti e tra le battute ironiche dei ragazzi, sorpresi per la mia voracità. Appena ho finito il gelato, M. mi chiede di unirsi a lui in una briscola. Io accetto, giochiamo, si parla di vacanze, andiamo in vacanza nello stesso posto. Ci sono risate e volti rilassati. Passano i giorni e inizia l’ultima settimana di scuola. Mercoledì la mia lezione inizia alle 13 e già in tutta la scuola si respira un’aria festaiola. C’è un concerto rock, alle tastiere c’è il meraviglioso P., musicista e professore di storia. Penso di portarli fuori anche oggi, i miei ragazzuoli. Quando entrò in aula c’è gente che canta, che balla allegramente. Mi richiedono di portarli fuori, bisogna avvisare il preside. Usciamo diligentemente, sanno come si devono comportare. Quando usciamo, alcune ragazze cantano le canzoni di Cristina d’Avena, l’atmosfera è cameratesca, c’è un ambiente sano, dove c’è amicizia. Torniamo nella splendida gelateria di qualche giorno prima. Stesso copione, gelato superveloce mio, risate dei ragazzi che, anche loro ordinano il gelato. S. mi chiede di unirmi a loro in un gioco da fare a tavola, incrociando le braccia sul tavolo con loro. è un gioco arguto, di attenzione e velocità, che non spiegherò ora. Mi appassiono e ottengo anche un buon risultato, arrivando terzo, ma non è quello il punto. Il punto è che è scattato qualcosa. Consegno loro una lettera, per ringraziarli per avermi fatto trascorrere un bel anno, qualcuno si commuove sommessamente. è scattato qualcosa, che ha fatto diventare la classe un gruppo. Dopo avere tolto qualcosa, è aumentato qualcosa. Dopo aver tolto quel compito che tanto li angosciava è aumentata la stima, la simpatia tra di noi. La stessa cosa succede il giovedì, andiamo alla gelateria e giochiamo, facciamo anche la foto insieme, scattata dal gelataio. Ci sono anche altre classi del nostro istituto, ma noi siamo i più belli. Tra le tante immagini che affollano la mia mente, posso citarne una molto esplicativa, io cammino in mezzo a loro sotto al portico, davanti a me ho S., in mezzo a C. e C. Si tengono per mano, facendo le scolarette, S. dice, sollevando le proprie mani e quelle delle altre, le mie bimbe, spensieratamente. Hanno lasciato da una parte i cattivi pensieri e lo stress, sono libere, avevano bisogno di quell’uscita. A proposito anche di giovedì abbiamo giocato due manche di quel famoso gioco, nella prima sono arrivato quarto e nella seconda mi hanno eliminato quasi subito. 

Quando arriva il sabato, aspetto l’ora in cui penso di vederli, ritardano e sono un po’ dispiaciuto, perché li vorrei salutare. Una di loro sta girando per la scuola e mi dice, sa che sono fuori, sul prato. Esco dall’istituto e li vedo, M. si è tolto la maglietta perché si tirano l’acqua, M., il giorno prima, mi aveva chiesto di abbracciarlo. è stato bello. M. e M., un ragazzo e una ragazza, mi chiedono di abbracciarli. Sono umidi, ma chi se ne frega. Li abbraccio, voglio loro bene. C’è la mia collega M., facciamo le foto insieme, anche con gli alunni. Un gruppo di ragazze sta sdraiato su un prato come ad un picnic. Mi raccontano che qualche ora prima hanno fatto una festicciola in classe. Io avrei visto solo dopo le foto su FB, mangiandomi le mani per non esserci stato.

La scuola è anche questo, la scuola è empatia, è costruire ponti tra le persone e abolire i confini delle nostre inibizioni.

Qualche giorno fa, c’è stato lo scrutinio di quelle due terze, i voti li ho arrotondati tutti al rialzo. Non solo, per fare attribuire un credito più alto a tre ragazzi, in virtù di una media più alta per la quale mancava poco e niente, ho alzato loro ulteriormente la media. A C. B., birichina e simpatica (ci ho dovuto pensare qualche secondo), a C., la compagna di S. (per lei non ci ho pensato un attimo, pensando a quando teneva buono il “discolo” M.), a E.S.,, un ragazzo simpatico.

Mi mancate da matti, se l’anno prossimo sarò nella vostra classe, vi porterò in gita io, lo giuro.

Leggere e tradurre alla sesta ora di lezione

Oggi fa caldo, la primavera sta arrivando con inusitata prepotenza. Nella città in cui vivo, nella regione in cui vivo, succede sempre così.

Al mercoledì ho lezione con i miei ragazzi di terza superiore alla sesta ora di lezione. Sono stanchi, è normale, hanno trascorso tante ore di lezione a scuola. Sono stanchi, perché sono trascorsi molti mesi da quando è iniziato l’anno scolastico, che sta finendo. A volte sono svogliati, perchè sono ragazzi.

Oggi volevo leggere almeno un testo, un articolo di giornale, dei due che mi ero prefissato. Sarei stato già contento. Invece, la maggior parte dei ragazzi ha seguito e imparato in fretta, consentendomi di leggere approfonditamente tutti e due i testi. Hanno lavorato, non so se per passione per la mia materia, o se perché sto loro simpatico. Hanno prodotto qualcosa. Hanno prodotto cultura, ma, soprattutto, hanno prodotto maturità e consapevolezza. E se questo arriva dal fatto che sto loro simpatico, va bene uguale. Avevano le facce stanche, ma serene, quando sono andati via. Erano sereni, perché, forse, stanno capendo che con lo studio e l’impegno si diventa grandi.

Potrebbe sembrare uno sbrodolamento di luoghi comuni, quello che ho appena scritto, ma non lo è affatto, in una scuola che è come il Titanic, nella quale l’orchestrina suona mentre la nave affonda. Vi voglio bene ragazzi.

Ma ora dovete rottamarci, abbiamo fallito, fatelo per il vostro bene, voi siete il futuro, noi siamo morti. Mandateci a casa, fate la rivoluzione. La rivoluzione dei sorrisi, dello studio e della gioia di stare insieme.