insegnanti

Lettera

Grazie alle reti sociali, i messaggi arrivano in tempo reale, non c’è bisogno di andare a comprare la carta da lettere e spedirla, buttando la busta in una buchetta. Arrivano in tempo reale, superano confini e barriere rapidamente, ma devono essere metabolizzati. Bisogna riflettere, bisogna riflettere sui contenuti, su quello che hanno dentro.

Ho ricevuto un messaggio da L. L è una ragazzona grande e grossa, buona, con un sorriso ampio e aperto. L’ho avuta come alunna all’alberghiero. Il primo anno era in prima. Ha la faccia da bambina, anche se sembrava, per il fisico, più grande.

Mi ha scritto:

Ti voglio tanto bene, M, sei stato un prof meraviglioso, come te non si poteva desiderare. Le sue ore erano stupende, simpatiche e molto divertenti. Grazie mille di essere stato il mio prof di tedesco, mi riusciva a capire ogni volta che non riuscivo a parlare con gli altri, sia miei compagni che alcuni professori. Non smetterò mai di ringraziarti, perché tu potresti anche essere mio padre. Ma come faccio a non volerti un bene dell’anima. Poi si devono ritenere fortunati i tuoi alunni e colleghi ad avere un uomo così fantastico al loro fianco.

Va bene così, direi.

Va bene, per tutte quelle volte in cui sento il peso dei giorni e delle scelte, va bene, per tutte le volte in cui sono felice, felicissimo e mi sento leggero. A presto.

M.

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Decadenza

C’è un’aula completamente vuota, quella dove insegno. Prima c’era un corridoio vuoto, quello della scuola. Prima c’era la strada della scuola, vuota e desolata, priva di quella colonna sonora di festoso chiasso, che c’era fino a pochi giorni. fa. Un plotoncino di insegnanti dall’aria un po’ mesta entra a scuola, presidiata dai bidelli, con le luci accese e il riscaldamento a palla. C’è un caldo soffocante, per pochi insegnanti e bidelli. Entro nell’aula deserta, non riesco a regolare la temperatura, mi tolgo la giacca e mi sbottono la camicia. Entra la conversatrice, sudata anche lei. Io provo a collegarmi ad Internet, per fare lezione ai ragazzi a casa. Ho impiegato 45 minuti di auto, 50 chilometri, mi sono alzato alle 6. Internet non va, mentre siamo da soli nell’aula vuota, con un caldo feroce. Passano i minuti e ci colleghiamo, utilizzando i giga del mio cellulare, prima che, dopo circa mezz’ora, i tecnici risolvano il problema. A casa mia ho la fibra ottica, ma non importa, per il preside bisogna andare lo stesso a scuola. Blatera confusamente di un dettato normativo, che non prevede lo “smart working” per gli insegnanti, sostenendo che non avrebbero copertura assicurativa. Siamo stati a casa ad insegnare per oltre due mesi, durante il precedente confinamento, senza che nessuno facesse queste storie. Mah… Il nuovo DPCM vieta le riunioni collegiali in presenza, dopo che questo signor preside le aveva imposte con poche eccezioni, trovando, a detta sua, un cavillo nella normativa. Mentre il virus correva, noi abbiamo dovuto stare belli ammassati, pur con le mascherine, a discutere del nulla in un’aula con l’aria viziata, mentre la pandemia correva abbiamo dovuto subire i collegi dei docenti, che terminano con le varie ed eventuali, che sono, per molti, un’occasione per scaricare le proprie frustrazioni e discettare sull’universo mondo. Questo punto dell’ordine del giorno mi fa venire in mente l’assessore Palmiro Cangini del comune di Roncofritto, assessore alle varie ed eventuali. Ma questi pseudoinsegnanti della Compagnia della Buona Morte non fanno per nulla ridere.

Mentre gli alunni ti guardano da dietro uno schermo, con l’aria triste e smarrita.

Il tempo non cancella, a volte

Si dice che il tempo cancelli i contorni, ma anche le figure. Si dice che la memoria si vada perdendo, anche per colpa di internet. Mah, forse è vero, ma non sempre.

Era settembre anche cinque anni fa, quando ricevetti la chiamata per quel liceo così lontano da casa mia, addirittura 50 km. Avevo molta paura delle autostrade, in quel periodo. Fatico ancora a capire il perché, visto che il mio unico incidente, in cui ho disfatto la macchina, l’ho avuto poco prima di entrare in tangenziale. Avevo poche ore, 7. Ci dovevo andare per soli due giorni alla settimana, il mercoledì e il sabato, avevo due classi del liceo linguistico. Il primo giorno ero teso e in ansia. Andò tutto bene: i ragazzi, quasi tutte femmine, furono disciplinati e volenterosi. Nonostante ciò tornai a casa distrutto, mi stesi sul divano, dove dormii profondamente. Il tempo cancellò velocemente la stanchezza, sostituita da un’adrenalina che mi dava sempre più energia e voglia di vederli. Quei ragazzi di quel paese di 30000 abitanti, molti dei quali hanno l’accento diverso dal mio, sono simpatici e positivamente vivaci. Ascoltano attentamente, ponendo domande intelligenti, che mi fanno riflettere in tanti modi diversi. Incontro i loro sorrisi al sabato mattina, quando sono stanco morto, perché la sera prima sono andato a farmi una birra e ho dormito 5 ore quella notte. Incontro i loro sorrisi e la stanchezza passa, viene relegata chissà dove. Insegno e imparo, in continuazione. I ragazzi e i genitori sono soddisfatti e felici, io pure. I giorni passano senza che io me ne accorga, tra richieste di rassicurazioni dei genitori “lei rimane, vero? mi raccomando” e un’atmosfera bella e sana con i ragazzi, in cui si impara e si vive bene. Passano solo due mesi, due mesi non sono niente, ma sono anche qualcosa, quando lasciano un segno nell’anima. Passano due mesi e arriva l’aggiornamento delle graduatorie, arriva una telefonata: la persona che era prima di lei ha accettato, il suo incarico è terminato. Il mio dispiacere è enorme, pensando che non avrei più rivisto quei ragazzi, il loro pure. Ricevo tanti messaggi, che mi scaldano l’anima. Organizzano un pranzo al ristorante, in una giornata che di grigio ha solo il cielo. Siamo felici e consapevoli che qualche cosa è nato.

Trascorre poco tempo e inizia un altro incarico, pieno di gloria e sorrisi, fatica bella e soddisfazioni.

Gli anni scivolano e arriva questa richiesta di disponibilità, dallo stesso liceo, questa volta per una cattedra piena. Non sono sicurissimo di candidarmi, perché è molto lontano. Lo faccio e ottengo il posto. All’inizio sono preoccupato, ma la preoccupazione svanisce un po’ alla volta, travolta dall’energia e dalla gioia che mi danno i ragazzi, ma anche i colleghi.

Incontro una collega, la quale si ricorda di quando, cinque anni prima avevo lavorato lì e mi dice: erano tanto contenti di te, i ragazzi. A volte il tempo non cancella.

Per questo faccio l’insegnante.

M.

“LEI è RIUSCITO A FAR PIACERE IL TEDESCO, ANCHE A CHI PRIMA ANDAVA MALE”


Ho ancora il ricordo di quel giorno in cui mi toccò di saltare la prima ora del mercoledì per un fastidiosissimo esame medico. Stavo perdendo il controllo di me stesso. Ero dispiaciutissimo di perderli.

C’è una pizzeria in provincia, ci sono tante ragazze belle ed eleganti, con qualche maschio stiloso ed elegante. Ci sono degli insegnanti belli, bravi ed appassionati. E poi c’è la stupenda 5H dell’Istituto Alberghiero. Ho avuto l’onore e il privilegio di lavorare soltanto con una parte di loro, ma ieri sera, per fortuna ho potuto socializzare anche con i ragazzi che studiano spagnolo come seconda lingua.
è stata una serata gioiosa e piena di belle emozioni, risate e lacrime di gioia.. Ho ribadito loro quanto è stato bello quest’anno, fin dal primo momento, quando mi sembrava di conoscerli da una decina d’anni, anche se era la prima lezione e che quest’anno è passato troppo in fretta.
Loro hanno dedicato delle frasi bellissime a tutti i professori. Mi hanno detto: lei è riuscito a far piacere il tedesco anche a chi era sempre andato male. Le lezioni con lei sono belle, perché si impara tanto, ma ci si fa anche una risata, quando è il momento di rilassarsi. si crea un’atmosfera familiare, simile a quella di un salotto, il ben noto “salotto della 5H” . E poi lei è una persona genuina. Faccio il lavoro più bello del mondo, l’avevo già scritto 100000000 volte, vero?
Anche ieri sera mi sono guardato allo specchio ed ho visto me stesso. Anche ieri sera ha vinto la scuola e ho vinto io. Viva la scuola e viva la vita.

Importanti come i medici

I medici e gli infermieri bravi curano il corpo, salvano vite, curano anime, anche. Gli insegnanti bravi curano l’anima, migliorano e di tanto la vita, rendono una società migliore.

Ho migliorato rapidamente la mia conoscenza degli strumenti per fare lezione online, sono abbastanza bravo con i computer, a 5 anni progettavo giochini elettronici. Non ho mai frequentato corsi, ho fatto studi letterari. In questi giorni sto aiutando un sacco di colleghi, che non sanno come muoversi, sto aiutando alunni, che, pur facendo parte della generazione di “nativi digitali”, sono messi male con il computer. Faccio lezione online, organizzo brindisi su Google Meet per festeggiare alunni, mantengo i buoni rapporti, anche con una battuta e qualche chiacchiera, cerco di trasmettere contenuti. Qualche volta l’audio e il video della Conference call sono ottimi, qualche volte si sente male la voce degli alunni o la mia e tutto diventa difficilissimo. La scuola manda qualche tutorial e qualche circolare, che non sono sufficienti. Organizza raramente qualche corso, male organizzato, perché spesso troppo teorico.

è tutto affidato alla buona volontà dei docenti,  come se la continuità didattica non contasse nulla. Possono decidere arbitrariamente se darsi fare, l’ho già scritto, lo so che sono una barba. Questa storia del virus forse potrà rafforzare ulteriormente dei rapporti, tra colleghi e con gli alunni, ma lascerà macerie, anche nel nostro campo. Noi possiamo e dobbiamo resistere.

 

M.

P.s. 20 Marzo 2020 Aggiungiamo anche che molti alunni non hanno il pc a casa o non ne hanno abbastanza. Come fanno a collegarsi per le videolezioni? So di diverse scuole che lo stanno fornendo in comodato gratuito, ma anche in questo caso, non c’è una linea generale da parte del Ministero. Dobbiamo renderci conto che anche il pc è un bene di prima necessità, della cui fornitura a tutti, anche a chi non ne ha la possibilità, lo stato deve farsi carico. Tutti parlano delle passeggiate e delle corse, da consentire o da vietare a seconda dei punti di vista. Pochissimi parlano di questo problema, che è un problema di diritto allo studio. E aggiungiamo pure il problema degli alunni disabili, che hanno la necessità di un insegnante di sostegno, che stia loro vicino…

TO BE CONTINUED

Perplessità

Leggo una circolare del preside nella quale c’è scritto che noi insegnanti non abbiamo alcun obbligo di fare lezione on line, come non ne hanno gli alunni di frequentarle. Mettiamo in fila le cose: le scuole sono chiuse dal 24 febbraio, oggi è il 16 marzo.

Avevo saputo della chiusura da un messaggio di mia madre. Dopo l’iniziale incredulità e/o stupore, avevo cercato i lati positivi, cioè portare avanti le mie traduzioni e riposarmi un po’, poi ho visto che la cosa si allungava e ho iniziato a preoccuparmi e a trovare la situazione inquietante.

Ho iniziato molto presto a tenere lezioni on line, che hanno svegliato o risvegliato la voglia anche in alunni abbastanza svogliati. So di molti altri prof che fanno lezione, come di molti alunni. Non ho controllato se tutti fanno lezione, sinceramente. Ma vorrei tornare al primo paragrafo, se gli insegnanti e/o gli alunni non volessero, la scuola sarebbe ferma da quasi un mese. Mah.

M.

Come un libro che si scrive da solo

Questo post non riesco a finirlo. Un giorno non ho tempo, il giorno successivo manca la corrente, stasera ho molto sonno. Forse non avrà tanta logica, forse non avrà un preciso conduttore. Ma è uno sfogo, rappresenta qualcosa che deve uscire, un’esigenza di liberazione, di liberarsi da qualcosa, sempre e comunque, in ogni caso.

Come un libro che si scrive da solo, come un libro che si scrive da solo maluccio, con una sintassi incerta e qualche errore di grammatica. Questa è la storia di un lento tramonto, che va a finire dove deve finire, senza bisogno di uno sceneggiatore sagace, ma con un finale già scritto. Non è un finale lieto, ma non è nemmeno particolarmente tragico. è una storia che è capitata a scuola, ma sarebbe potuto capitare ovunque. è capitata a me, ma sarebbe potuta capitare a chiunque. Qualcuno lo chiama mobbing, qualcuno lo chiama stronzaggine, qualcuno lo chiama maleducazione. Le vittime di questo fenomeno possono andare incontro alla depressione, c’è persino chi si suicida. Io non mi suicido, sono abbastanza forte, non credo nemmeno di essere depresso.

Siamo nella pianura, in un paese che non fa nemmeno comune. è una frazione all’estremo est della provincia, al confine con la provincia successiva. Per arrivarci, dalla città, ci vogliono 45 minuti con l’automobile, attraverso una statale, una provinciale e una strada stretta stretta, dove passa un’auto alla volta. Il percorso è spesso avvolto dalla nebbia, in un tutto indistinto grigio. Quando passo per la strada stretta stretta e c’è la nebbia, c’è quasi sempre, io ho paura. Ho paura di finire nel fosso oppure di cozzare contro un’altra macchina. Vado piano, qualche volta impreco, mi distraggo con la musica. A volte canto, male ma canto. Per me andare al lavoro è un rito solipsistico. Ho bisogno di tempo per stare con me, per collegare pensieri e sensazioni. Non potrei andare con i mezzi. Servono tre autobus per arrivare in quel paesino dimenticato dal mondo. Dovrei alzarmi troppo presto  e un po’ mi pesa. Qualche malalingua potrebbe insinuare che io sia un po’ egoista. Se tutti ragionassero come me, l’inquinamento aumenterebbe a dismisura. E forse quella malalingua avrebbe anche un po’ ragione. Forse comincia a pesarmi anche questo lavoro, perché c’è aria cattiva, c’è aria chiusa in quella scuola. O forse no.

Faccio l’insegnante di sostegno e sono in aula con altri insegnanti, molti dei quali assomigliano solo vagamente ad un insegnante: sono brutti dentro, confusi e pericolosi. Sono annoiati, sono tristi, e frustrati. Io sono allegro, invece. A me piace quel lavoro, a loro no. E si vede. Ho tanto da dare e tanto da raccontare. Ho anche un aspetto curato, che corrisponde al mio ordine mentale e al mio benessere interiore. A loro, a questi insegnanti faccio paura. Che strano, non dovrei fare paura a nessuno. Ho un’aria rassicurante e serena, spesso sorrido. Faccio paura proprio per quello, già. Rappresento quello che loro non sono e non potranno mai essere. Sono cupi, maledicono quel dio cattivo che li ha destinati ad una sorte per loro triste. Sono impreparati, le loro ore sono uno strazio di insipienza e ignoranza. Come si fa ad esorcizzare un pericolo, cioè il sottoscritto? Si inizia con il non salutarlo o salutandolo con malavoglia. Bisogna fargli capire che lui non ha identità, che lui non c’è, anche se c’è. Il sottoscritto è un insegnante di tedesco con esperienza e la cosiddetta insegnante di tedesco che è in classe se ne strafrega di lui, rifiutando ogni collaborazione, nonostante lei si trovi in grande difficoltà didattica e disciplinare. L’insegnante di musica, chiamiamola così, non lo ritiene nemmeno degno di autorizzare gli alunni ad andare in bagno. E non sono i soli esempi. Ma torniamo all’insegnante di musica, chiamiamola così. Un giorno di primavera siamo nel cortile di cemento della scuola. Il verde è poco e malridotto. Una bambina di quella classe si avvicina all’insegnante di sostegno. Sorride, gli va a pochi centimetri dal volto. Gli fa un tremendo rutto in faccia. L’insegnante di sostegno rimane basito e avverte la “collega”. La “collega” gli risponde, davanti a degli alunni, davanti a dei ragazzini di 11-12 anni, che non è affar suo e che di quella mancanza di rispetto non gliene importa nulla. Il suo obiettivo era umiliarmi, sicuramente. Non c’è riuscita, non mi ha traumatizzato. Quella notte ho dormito lo stesso. Quella collega ha trasmesso un insegnamento, se così lo vogliamo chiamare, a dei dodicenni. Che ad un insegnante di sostegno si può ruttare in faccia impunemente. Che un insegnante, che una persona può non meritare rispetto, in base all’arbitrio di qualcuno. Questa può essere la scuola pubblica. Che non è più pubblica. Perché cerca di escludere qualcuno, di farlo sentire meno degli altri, di farlo sentire niente. Quel qualcuno sono io. Ma soprattutto è una scuola che diseduca, che fa del male a dei ragazzini, che non educa dei cittadini.

Ma trasferiamoci di pochi chilometri. In un grande edificio pieno di luce, in paese, ma vicino alla campagna, ci sono sempre io. Siamo in una scuola superiore, in un luogo santo e benedetto dalla vita di cui ho già parlato. C’è un preside saggio e lungimirante, il quale, prima mi propone di fare da interprete di russo davanti a centinaia di alunni e prof e poi mi propone di tenere un corso di russo in quella scuola. Sono felice anche solo per la proposta e accetto con entusiasmo. Vengo a sapere che il numero minimo di partecipanti per avviare il corso è di 15 e penso che non partirà mai. Ma sono felice lo stesso. è una grande dimostrazione di fiducia nei miei confronti e questo basta. Passano i giorni e scopro che gli iscritti sono 20. Il corso si farà. Loro sono ragazzini normali, non dei nerds. Sono ragazzini che hanno una vita, il fidanzato, la discoteca. Sono ragazzini che vanno per lunghe ore a scuola e che, un giorno alla settimana, invece di andare a casa, mangiano un panino al volo e studiano russo per due ore, dopo 6 ore di scuola. Molti di loro sono miei alunni di tedesco e mi dicono che si iscrivono solo perché l’insegnante di russo sono io. Una mattina in corridoio il preside mi ferma, per farmi i complimenti e poi mi dice, si comunica quello che si è. Sono felice e orgogliosissimo, faccio un sorriso di soddisfazione e appagamento. Penso anche che sia una vittoria per quei ragazzi, entusiasti e belli. è anche una vittoria per la scuola pubblica, sì, una piccola grande vittoria.

Stasera alle 22 06 del 22 ottobre sto per dare il via libera a queste parole. Hanno occupato alcune delle mie ore ed entreranno nelle vostre. è stata una gestazione un po’ lunga, non so se difficile. Stasera fa molto caldo, anche se è ottobre. Indosso un paio di pantaloncini e una maglietta. Ho sonno e una piccola soddisfazione: vi ho raccontato qualcosa. A presto.

M.

alcune volte

Ho conosciuto molte scuole, forse troppe, essendo precario. Sono stato a contatto con i tipi umani più diversi tra loro e ho realizzato un catalogo di facce, vite, nevrosi, bontà, cattiverie, ecc. Ho conosciuto molti ragazzini e ragazzi, molti dei quali con tanto da dire e da dare, ho conosciuto dei colleghi. Due anni fa ho fatto l’insegnante di sostegno, l’ho raccontato su questo blog. Ho potuto conoscere meglio il mondo degli insegnanti, stando in classe ad assistere la bambina che mi era stata assegnata ed ho capito diversi aspetti di questa realtà. Ho visto un’insegnante femmina che ha interrotto la lezione di storia per 30 minuti per far recitare una poesia orrenda ad un ragazzino prepotente e maleducato che crede di essere Gassmann, ho visto una sedicente insegnante di tedesco che non spiegava la grammatica, ma distribuiva le stelline di carta. Aveva assegnato un po’ a casaccio degli esercizi di grammatica ai ragazzini, i quali chiamavano me per aiutarli a svolgere quanto da lei richiesto. Ero io l’unico insegnante di tedesco. Ho visto un’insegnante di musica che il 30 gennaio, dopo quasi due mesi, faceva suonare ancora Jingle Bells in un’aula gelida, con gli alunni tremanti. Ho visto dei ragazzini soli, senza una guida, senza un punto di riferimento, ho visto degli insegnanti incapaci, non tutti, per la verità. Ho visto degli insegnanti che hanno rinunciato ad insegnare, preferendo vivacchiare. Ho visto delle classi come navi senza nocchiero, per citare qualcuno.  C’ero io, insegnante, traduttore, competente e appassionato. La cosiddetta insegnante di tedesco mi disprezza, perché porto la giacca in classe, mi annoia e tocca a dei ragazzini di 12 anni gestire la situazione, scegliendo l’insegnante giusto. La cosiddetta insegnante di tedesco c’era rimasta malissimo fin dal momento in cui ci siamo conosciuti, perché non amava la presenza di un insegnante di tedesco durante le sue “lezioni”. Questi adulti mi hanno fatto un bel po’ schifo, ma anche tenerezza. Sono deboli, soli e indifesi. Sono vittime di loro stessi, vittime della loro trascuratezza, della loro approssimazione. Sono approssimativi anche nel vestirsi, brutti e sciatti. Fanno del male alla scuola, fanno del male a loro stessi.