è un buon periodo, questo, almeno discreto, quindi non ho nulla di cui lamentarmi. Stavo pensando a dei tristi anniversari che mi riguardano, per quanto riguarda dicembre, a problemi di salute, alla perdita di controllo che ho avuto sul mio corpo. Svenire, senza un motivo apparente, lascia straniti, basiti, atterriti. Avere una famiglia che ti considera un moribondo, anche se dall’ospedale ti dimettono immediatamente, consigliandoti di sottoporti a qualche esame, ma senza fretta, ti mette in un regime di eterna emergenza, che ti toglie la normalità della vita. Era solo qualche anno fa, stavo sprofondando. Vedere i miei alunni mi ha salvato, stare con loro mi ha fatto rivivere.
depressione
Verranno tempi migliori?
Forse, chissà, mah. Per ora, mi sento a pezzi sotto tutti i punti di vista, fisico e morale. Mi sembra che la vita sia diventata impossibile da affrontare. Non riesco nemmeno a piangere, magari mi farebbe bene, forse, anche se non so più nemmeno cosa mi fa male e cosa mi fa bene. Forse non l’ho mai saputo. Mi sento un inetto, un povero idiota senza senso, un fallito, una testa di cazzo. Dormo poco e male.
A presto, spero.
Un abbraccio.
M.
Resumé
Non conoscevo questa poesia, conoscevo poco Dorothy Parker. Ho letto un bel articolo sul Fatto Quotidiano di ieri. A volte leggere il giornale serve. a volte leggere di qualcosa che non c’entra con la politica, è piacevole. Mi piace l’ironia di questa poesia.
Razors pain you;
Rivers are damp;
Acids stain you;
And drugs cause cramp.
Guns aren’t lawful;
Nooses give;
Gas smells awful;
You might as well live.
«I rasoi fanno male; i fiumi sono umidi;
l’acido macchia; i farmaci danno i crampi.
Le pistole sono illegali; i cappi cedono;
il gas ha un odore terribile. Tanto vale vivere…»
Come un libro che si scrive da solo
Questo post non riesco a finirlo. Un giorno non ho tempo, il giorno successivo manca la corrente, stasera ho molto sonno. Forse non avrà tanta logica, forse non avrà un preciso conduttore. Ma è uno sfogo, rappresenta qualcosa che deve uscire, un’esigenza di liberazione, di liberarsi da qualcosa, sempre e comunque, in ogni caso.
Come un libro che si scrive da solo, come un libro che si scrive da solo maluccio, con una sintassi incerta e qualche errore di grammatica. Questa è la storia di un lento tramonto, che va a finire dove deve finire, senza bisogno di uno sceneggiatore sagace, ma con un finale già scritto. Non è un finale lieto, ma non è nemmeno particolarmente tragico. è una storia che è capitata a scuola, ma sarebbe potuto capitare ovunque. è capitata a me, ma sarebbe potuta capitare a chiunque. Qualcuno lo chiama mobbing, qualcuno lo chiama stronzaggine, qualcuno lo chiama maleducazione. Le vittime di questo fenomeno possono andare incontro alla depressione, c’è persino chi si suicida. Io non mi suicido, sono abbastanza forte, non credo nemmeno di essere depresso.
Siamo nella pianura, in un paese che non fa nemmeno comune. è una frazione all’estremo est della provincia, al confine con la provincia successiva. Per arrivarci, dalla città, ci vogliono 45 minuti con l’automobile, attraverso una statale, una provinciale e una strada stretta stretta, dove passa un’auto alla volta. Il percorso è spesso avvolto dalla nebbia, in un tutto indistinto grigio. Quando passo per la strada stretta stretta e c’è la nebbia, c’è quasi sempre, io ho paura. Ho paura di finire nel fosso oppure di cozzare contro un’altra macchina. Vado piano, qualche volta impreco, mi distraggo con la musica. A volte canto, male ma canto. Per me andare al lavoro è un rito solipsistico. Ho bisogno di tempo per stare con me, per collegare pensieri e sensazioni. Non potrei andare con i mezzi. Servono tre autobus per arrivare in quel paesino dimenticato dal mondo. Dovrei alzarmi troppo presto e un po’ mi pesa. Qualche malalingua potrebbe insinuare che io sia un po’ egoista. Se tutti ragionassero come me, l’inquinamento aumenterebbe a dismisura. E forse quella malalingua avrebbe anche un po’ ragione. Forse comincia a pesarmi anche questo lavoro, perché c’è aria cattiva, c’è aria chiusa in quella scuola. O forse no.
Faccio l’insegnante di sostegno e sono in aula con altri insegnanti, molti dei quali assomigliano solo vagamente ad un insegnante: sono brutti dentro, confusi e pericolosi. Sono annoiati, sono tristi, e frustrati. Io sono allegro, invece. A me piace quel lavoro, a loro no. E si vede. Ho tanto da dare e tanto da raccontare. Ho anche un aspetto curato, che corrisponde al mio ordine mentale e al mio benessere interiore. A loro, a questi insegnanti faccio paura. Che strano, non dovrei fare paura a nessuno. Ho un’aria rassicurante e serena, spesso sorrido. Faccio paura proprio per quello, già. Rappresento quello che loro non sono e non potranno mai essere. Sono cupi, maledicono quel dio cattivo che li ha destinati ad una sorte per loro triste. Sono impreparati, le loro ore sono uno strazio di insipienza e ignoranza. Come si fa ad esorcizzare un pericolo, cioè il sottoscritto? Si inizia con il non salutarlo o salutandolo con malavoglia. Bisogna fargli capire che lui non ha identità, che lui non c’è, anche se c’è. Il sottoscritto è un insegnante di tedesco con esperienza e la cosiddetta insegnante di tedesco che è in classe se ne strafrega di lui, rifiutando ogni collaborazione, nonostante lei si trovi in grande difficoltà didattica e disciplinare. L’insegnante di musica, chiamiamola così, non lo ritiene nemmeno degno di autorizzare gli alunni ad andare in bagno. E non sono i soli esempi. Ma torniamo all’insegnante di musica, chiamiamola così. Un giorno di primavera siamo nel cortile di cemento della scuola. Il verde è poco e malridotto. Una bambina di quella classe si avvicina all’insegnante di sostegno. Sorride, gli va a pochi centimetri dal volto. Gli fa un tremendo rutto in faccia. L’insegnante di sostegno rimane basito e avverte la “collega”. La “collega” gli risponde, davanti a degli alunni, davanti a dei ragazzini di 11-12 anni, che non è affar suo e che di quella mancanza di rispetto non gliene importa nulla. Il suo obiettivo era umiliarmi, sicuramente. Non c’è riuscita, non mi ha traumatizzato. Quella notte ho dormito lo stesso. Quella collega ha trasmesso un insegnamento, se così lo vogliamo chiamare, a dei dodicenni. Che ad un insegnante di sostegno si può ruttare in faccia impunemente. Che un insegnante, che una persona può non meritare rispetto, in base all’arbitrio di qualcuno. Questa può essere la scuola pubblica. Che non è più pubblica. Perché cerca di escludere qualcuno, di farlo sentire meno degli altri, di farlo sentire niente. Quel qualcuno sono io. Ma soprattutto è una scuola che diseduca, che fa del male a dei ragazzini, che non educa dei cittadini.
Ma trasferiamoci di pochi chilometri. In un grande edificio pieno di luce, in paese, ma vicino alla campagna, ci sono sempre io. Siamo in una scuola superiore, in un luogo santo e benedetto dalla vita di cui ho già parlato. C’è un preside saggio e lungimirante, il quale, prima mi propone di fare da interprete di russo davanti a centinaia di alunni e prof e poi mi propone di tenere un corso di russo in quella scuola. Sono felice anche solo per la proposta e accetto con entusiasmo. Vengo a sapere che il numero minimo di partecipanti per avviare il corso è di 15 e penso che non partirà mai. Ma sono felice lo stesso. è una grande dimostrazione di fiducia nei miei confronti e questo basta. Passano i giorni e scopro che gli iscritti sono 20. Il corso si farà. Loro sono ragazzini normali, non dei nerds. Sono ragazzini che hanno una vita, il fidanzato, la discoteca. Sono ragazzini che vanno per lunghe ore a scuola e che, un giorno alla settimana, invece di andare a casa, mangiano un panino al volo e studiano russo per due ore, dopo 6 ore di scuola. Molti di loro sono miei alunni di tedesco e mi dicono che si iscrivono solo perché l’insegnante di russo sono io. Una mattina in corridoio il preside mi ferma, per farmi i complimenti e poi mi dice, si comunica quello che si è. Sono felice e orgogliosissimo, faccio un sorriso di soddisfazione e appagamento. Penso anche che sia una vittoria per quei ragazzi, entusiasti e belli. è anche una vittoria per la scuola pubblica, sì, una piccola grande vittoria.
Stasera alle 22 06 del 22 ottobre sto per dare il via libera a queste parole. Hanno occupato alcune delle mie ore ed entreranno nelle vostre. è stata una gestazione un po’ lunga, non so se difficile. Stasera fa molto caldo, anche se è ottobre. Indosso un paio di pantaloncini e una maglietta. Ho sonno e una piccola soddisfazione: vi ho raccontato qualcosa. A presto.
M.
metti in circolo il tuo amore. voglio metterlo in circolo.
Per questo post voglio autocitarmi. Agli albori di questo blog avevo pubblicato questo post https://scuolafinita.wordpress.com/2013/03/01/metti-in-circolo-il-tuo-amore/ Fiorella Mannoia canta “Metti in circolo il tuo amore”. Oggi ho ascoltato questa canzone, mentre ero in automobile e ho pensato che sono una persona che vuole bene, che vuole bene alla scuola, ma soprattutto ai ragazzi, agli alunni. Voglio loro bene, senza aspettarmi il paradiso. Voglio loro un bene fine a sé stesso, non mi aspetto ricompense, né terrene, né ultraterrene. Però mi sento di merda.
Ecco il testo:
Hai cercato di capire
e non hai capito ancora
se di capire di finisce mai.
Hai provato a far capire
con tutta la tua voce
anche solo un pezzo di quello che sei.
Con la rabbia ci si nasce
o ci si diventa
tu che sei un esperto non lo sai.
Perché quello che ti spacca
ti fa fuori dentro
forse parte proprio da chi sei.
Metti in circolo il tuo amore
come quando dici “perché no?”
Metti in circolo il tuo amore
come quando ammetti “non lo so”
come quando dici “peché no?”
Quante vite non capisci
e quindi non sopporti
perché ti sembra non capiscan te.
Quanti generi di pesci
e di correnti forti
perché ‘sto mare sia come vuoi te.
Metti in circolo il tuo amore
come fai con una novità
Metti in circolo il tuo amore
come quando dici si vedrà
come fai con una novità
E ti sei opposto all’onda
ed è li che hai capito
che più ti opponi e più ti tira giù.
E ti senti ad una festa
per cui non hai l’invito
per cui gli inviti adesso falli tu.
Metti in circolo il tuo amore
come quando dici “perché no?”
Metti in circolo il tuo amore
come quando ammetti “non lo so”
come quando dici perché no.
visto che mi voglio bene
Ho ricevuto altri attestati di stima, belli, sentiti, da genitori e alunni. Quelli dei bambini mi fanno piangere, ho già pianto sabato. Quelli dei genitori mi riempiono d’orgoglio e gioia. Da qualche parte, non so dove e non so ancora quando, avranno bisogno di me. E debbo ripartire, dare sempre di più. Visto che mi voglio bene, visto che fuori c’è il sole, visto che non sono affatto male, debbo ripartire. Debbo continuare a tradurre, cucinare, fare sport e vivere. La tristezza deve diventare benzina per ripartire. Sarà difficile, ci vorranno ancora giorni, spero non troppi. Sarà difficile, sono ferito, un bel po’ ferito, ma sono vivo. o almeno credo.