quando viaggio devo sentire il paese, devo sentirlo nell’intimo. Una città è fatta di suoni, vedute, sapori, due mila aspetti che ti sbattono addosso con violenza, che ti pongono delle domande, che, a volte, danno risposte a delle domande che poni. La cucina è un linguaggio che parla alla vista, al corpo, allo spirito, all’olfatto, la cucina è un messaggio lanciato dalla terra, parla di cultura e storia. chi vuol mangiare gli spaghetti all’estero è un po’ fesso, certamente, ma è anche una persona che ha paura, è una persona che lancia un messaggio culturale. La cucina di un altro paese ci spinge al confronto, ci mette a nudo, scopre le nostre insicurezze. Cosa provate guardando una succulenta fiorentina? un piatto di tagliatelle? Provate gioia per la loro squisitezza, ma, soprattutto, vi sentite rassicurati. Il sentimento di rassicurazione è umano, comprensibile, però ci tiene fermi, ci rende fermi mentalmente.
quando vado all’estero, ho bisogno della cucina straniera, ma, nello stesso tempo, ho bisogno di rassicurazioni. Consulto le guide, incrocio i dati. Mi piace mangiare nei bar, nei pub, mi piace la cucina tradizionale, ma mi piace anche la cucina rimaneggiata, mi piace cercare i ristoranti stellati. Da quando c’è Masterchef anche io sono diventato appassionato della gastronomia di alto livello. Cerco sulla guida 50 grands tables du monde e rimango incuriosito da Mikouni. Cerco il percorso con la metropolitana e fa un caldo boia, come sempre. arrivo nei pressi, sono le 8 e fa un caldo boia, ho la camicia zuppa di sudore. Prendo un taxi, arrivo al ristorante e scopro di avere prenotato nell’altra sede del ristorante. Ci sono Mikouni Marounoshi e Mikouni e basta. Sono stremato e non faccio altro che bere acqua, come al solito in Giappone, generosamente offerta. Mi accorgo che sulla guida c’erano gli indirizzi invertiti dei due ristoranti dello stesso proprietario. I gentilissimi camerieri modificano la prenotazione e mi accompagnano in sala. Il servizio è attento e premuroso. Mi servono il menu, è scritto in giapponese e francese. Io parlo bene in francese, lo studio da tanti anni, ma del menu capisco poco. Leggo, chiedo spiegazioni ai camerieri in inglese, loro sono gentilissimi e rispondono puntualmente. Capisco di più, ordino, mi faccio consigliare vini francesi e attendo. I camerieri mi presentano piatti finemente elaborati, costruzioni complesse e meravigliose di cui si può intuire solo qualche elemento e io provo a capire, provo a capire e gusto. Mangio bene e in abbondanza, mi sento appagato, anche se preferisco Cracco, mi sento cresciuto, sì, sembra strano questo aggettivo, ma è così. Ho provato ad imparare, ho sperimentato cosa significa la cultura. La cultura è complessità, è chiedere qualcosa a sé stessi, è cercare lo squilibrio, per trovare un nuovo equilibrio. Altro che tweet, altro che il regno dei social network, che diventano il rifugio e la ragione di vita di disperati e del disperato presidente del consiglio.