Month: novembre 2020

Sorrisi

Entro nell’aula deserta, un po’ spettrale. Mi ricordo di quando venivano a scuola, belli, sorridenti e positivamente vivaci, pure bravi in tedesco.

Accendo il computer e rivedo i loro sorrisi e la loro vivacità sana. Glielo dico, questa classe è una delle più sorridenti. Loro mi rispondono: lei è uno dei pochi prof con i quali sorridiamo.

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Profumi

Mi ricordo di dolci giornate, lontane dall’odore a volte sulfureo, che ogni tanto sento oggi. Pausa di pace, pausa di sorrisi in mezzo alle tempeste.

Mi ricordo il profumo delle patatine fritte, preparate da mia nonna, cosparse di salamoia e messe ad asciugare sulla carta gialla del macellaio. Mi ricordo che si spandeva nei tardi pomeriggi d’estate e riempiva le narici mie e anche dei vicini, che si complimentavano con lei. Mi ricordo l’odore fantastico delle tagliatelle con il ragù, che lei preparava da fine settembre a fine maggio, perché, diceva, negli altri mesi faceva troppo caldo, anche se lei non sentiva il caldo. Mi ricordo le lasagne e gli gnocchi, ma anche tutti gli altri piatti, però le mie preferite erano le tagliatelle. Anche io so preparare il ragù, ora. è buono, ma non quanto il suo. Mi ricordo l’odore della biancheria lavata da lei, con il detersivo Ava, mi ricordo quel profumo che mi riempiva le narici, quando affondavo il viso negli asciugamani di canapa, retaggio delle bisnonne. Mi ricordo che riempiva il cortile, proprio come sabato, quando stavo tornando da scuola. è stato bello, molto proustiano. Qualcosa di bello, qualcosa di sano.

Un virus aiuta lo smart working

Ci voleva un virus, ci volevano decine di migliaia di morti, persone intubate, persone che soffrono, familiari in pena. Ci voleva una pandemia per liberare il tempo, ci voleva questa tragedia per affrancare le nostre ore di vita, ma anche di studi, dalla prigionia di autostrade nel tardo pomeriggio di inverno, pieno di nebbia e intasamenti. Ci voleva tutto questo. Dopo la scuola trascorriamo ore a mangiare, più o meno bene, senza poter tornare a casa, visto che abito abbastanza lontano dalla scuola. La riunione inizia spesso troppo tardi, perché il signor capo se la prende comoda, o perché qualcun altro se la prende comoda. L’appello è lungo e laborioso, si può iniziare questo stanco rito, dal sapore manzoniano, nel senso delle gride.

I punti dell’ordine del giorno sono infiniti, come è infinita l’adunata di docenti, molti dei quali con l’occhio pendulo per la digestione e il sonno. Il super capo inanella predicozzi sulla puntualità degli insegnanti, prolisso e logorroico, mentre qualche disadattato coglie ogni occasione per intervenire sull’universo mondo, coglie ogni pretesto per allungare un brodo già troppo acquoso. Il capo non interviene per fermare la logorrea delle anziane cariatidi (sono anziani anche a 30 anni, a volte), anzi la alimenta con i suoi sproloqui. E così la riunione arriva alle 16 30, termine teorico, teorico, perché manca ancora un sacco, il cielo si scurisce man mano, mentre il conto della babysitter cresce, mentre lo stipendio cala e la nonna che accudisce il nipote deve rinunciare, per l’ennesima volta alla sua lezione di pilates.

Arriva il momento delle varie ed eventuali, il tempo scorre lento fino alle 5 passate. La messa è finita, davanti agli sguardi di scoramento e rassegnazione di molti prof. Puoi andare a casa e arrivano le 18, 18 e 30. Dal momento che le ore di lezione sono finite alle 12, vuol dire che hai perso 6 ore e mezza, di cui tre, almeno, dedicati a pasti che ti devi pagare tu e al lungo viaggio, nell’ora di punta. Avresti potuto trascorrere queste ore a casa e aspettare la riunione nel salotto, prima del collegamento. Ora un DPCM costringe il grande capo a liberare il tuo tempo, a liberare il nostro tempo, a regalare tempo alla vita, agli studi per migliorarci e migliorare il nostro lavoro. O forse è stato il virus?

Segnalazione

https://www.lacacciatricedistoriedinchiostro.com/search/label/%22Storia%20di%20una%20suora%20inquietante%20e%20di%20un%20professore%22?zx=e91ac7aaa1792202

Segnalo questa bella intervista di Daisy Raisi. Intervista un autore sul proprio romanzo, Storia di una suora inquietante e di un professore.

M.

Gride manzoniane

Il grande capo del liceo dove lavoro sembra un po’ uno sfigato inacidito, che non veniva mai invitato alle feste, quando era lui adolescente. Le ragazze non se lo filavano mai, lui non riusciva a rivolgersi a loro, non riusciva nemmeno ad incrociare il loro sguardo. Il tempo è trascorso e lui è diventato preside, molto lontano da casa e allora ha voglia di rivalsa. Per lui i prof, o molti di essi, sono come quei compagni di scuola e quelle compagne che non se lo filavano. E allora vuol comandare, come il protagonista de Il Giudice, la canzone di De André. E così la sua aria da sfigato non dispensa più buon umore, per chi alla sbarra in piedi gli dice vostro onore. E allora diventa una sorta di Don Ferrante, che non si vuole accorgere della peste, convocando riunioni/adunanze, alle quali accorrono folle oceaniche o un po’ più sparute, a volte confinate in spazi stretti, ammassati a respirare la poca aria viziata presente. Come per incanto i contagi crescono, come i DPCM di conseguenza e lui oggi ha scritto una circolare più che confusa, simile ad una grida manzoniana. Il coraggioso che ha la forza e l’abnegazione di arrivare fino in fondo senza addormentarsi comprende che il grande capo sta pensando di autorizzarci a lavorare da casa. Devo dire che ha la reattività di un bradipo addormentato.

A proposito, oggi Internet funzionava un po’ meglio.

Decadenza

C’è un’aula completamente vuota, quella dove insegno. Prima c’era un corridoio vuoto, quello della scuola. Prima c’era la strada della scuola, vuota e desolata, priva di quella colonna sonora di festoso chiasso, che c’era fino a pochi giorni. fa. Un plotoncino di insegnanti dall’aria un po’ mesta entra a scuola, presidiata dai bidelli, con le luci accese e il riscaldamento a palla. C’è un caldo soffocante, per pochi insegnanti e bidelli. Entro nell’aula deserta, non riesco a regolare la temperatura, mi tolgo la giacca e mi sbottono la camicia. Entra la conversatrice, sudata anche lei. Io provo a collegarmi ad Internet, per fare lezione ai ragazzi a casa. Ho impiegato 45 minuti di auto, 50 chilometri, mi sono alzato alle 6. Internet non va, mentre siamo da soli nell’aula vuota, con un caldo feroce. Passano i minuti e ci colleghiamo, utilizzando i giga del mio cellulare, prima che, dopo circa mezz’ora, i tecnici risolvano il problema. A casa mia ho la fibra ottica, ma non importa, per il preside bisogna andare lo stesso a scuola. Blatera confusamente di un dettato normativo, che non prevede lo “smart working” per gli insegnanti, sostenendo che non avrebbero copertura assicurativa. Siamo stati a casa ad insegnare per oltre due mesi, durante il precedente confinamento, senza che nessuno facesse queste storie. Mah… Il nuovo DPCM vieta le riunioni collegiali in presenza, dopo che questo signor preside le aveva imposte con poche eccezioni, trovando, a detta sua, un cavillo nella normativa. Mentre il virus correva, noi abbiamo dovuto stare belli ammassati, pur con le mascherine, a discutere del nulla in un’aula con l’aria viziata, mentre la pandemia correva abbiamo dovuto subire i collegi dei docenti, che terminano con le varie ed eventuali, che sono, per molti, un’occasione per scaricare le proprie frustrazioni e discettare sull’universo mondo. Questo punto dell’ordine del giorno mi fa venire in mente l’assessore Palmiro Cangini del comune di Roncofritto, assessore alle varie ed eventuali. Ma questi pseudoinsegnanti della Compagnia della Buona Morte non fanno per nulla ridere.

Mentre gli alunni ti guardano da dietro uno schermo, con l’aria triste e smarrita.