Month: dicembre 2019

Auguri

Ho la faccia un po’ stropicciata, ho gli occhi piccoli e cerchiati. Sono sommamente indolente e un po’ scazzato. Non ho drammi importanti, anzi forse non ho drammi. Non hanno dignità per essere definiti tali. Ho voglia di riposarmi. Forse non ho nulla di importante da scrivere, non ho niente di fondamentale, niente che vincerà premi letterari o che resterà impresso nelle vostre menti e nei vostri cuori. Sto bene di salute fisica, il mio umore non è dei migliori. Nulla di particolare. Tanti auguri, sommamente banali e sommamente sentiti. A presto.

M.

Mica vi abbandono eh…

Pubblicità

Ospedali

ed ecco un altro racconto che ho scritto qualche mese fa. è tutto vero e lo adoro…

OSPEDALI

 

Ho ancora il ricordo dell’anima a pezzi che avevo il giorno in cui sono uscito dall’ospedale l’ultima volta, quasi un anno e mezzo fa. Ho ancora il ricordo di quando sono diventato un pezzo di carne, il giorno in cui mi hanno preso di peso per portarmi in ospedale, senza darmi il tempo di ricompormi, di vestirmi. Era febbraio e faceva un freddo boia. Mi hanno trascinato in mutande in una fredda mattina di febbraio, hanno supposto che io facessi uso di droghe, addirittura. Ero banalmente svenuto, una banale sincope, la chiamano. Pensateci e pensiamoci. Ero io, una persona normale, una persona come tante. Avrebbe potuto essere chiunque, avremmo potuto essere tutti. Siamo esseri senzienti, viviamo e soffriamo. Ci troviamo in condizione di bisogno, diventiamo minuscoli e fragili. In quel momento abbiamo ancora più bisogno di aiuto e comprensione. E invece, diventiamo oggetti, pezzi di carne morta nelle mani di portantini senza umanità. Uscii con un profondo terrore ed orrore per quel luogo, per quei luoghi.

 

Nei mesi successivi ho fatto esperienze, sono andato in gita a Praga con i miei alunni. Ho vissuto tanto e ho vissuto bene. Ho continuato ad amare la vita, di un amore folle, spesso corrisposto. Ho amato tanto, forse troppo. Ho continuato a pensare che l’unica soluzione sia amare, anche perché è l’unica cosa che so fare. Trascorrono i mesi, che dispensano spesso cose belle. Alcuni mesi fa mi arriva una telefonata da parte della collega, che coordina la sezione in ospedale della scuola in cui lavoro. Mi propone di insegnare tedesco ad un ragazzino malato. Io rimango sorpreso e, ammetto, pure un po’ preoccupato. Non avevo voglia di entrare in un ospedale, quasi che l’entrata in un luogo del genere facesse rinascere il profondo dolore. Non sapevo assolutamente, come fosse la scuola lì. Mi immaginavo delle lezioni all’interno dei reparti ospedalieri. Pongo molte domande alla collega, con la paura di trovarmi di fronte ad un alunno con il volto e il corpo straziati dalla sofferenza fisica. La mia collega dissipa molta parte dei miei dubbi e mi convinco. O forse sono quasi convinto. Parto per la mia prima mattina nella scuola ospedale e cerco di non pensare troppo a quello che mi sta accadere. Esco dalla città, dopo essere uscito dall’autostrada e risalgo il dolce pendio di una collina baciata dal sole. Mi sembra di stare andando ad una gita. Entro nell’ospedale, gremito da folle veloci e lente. Al centralino dell’ospedale faccio chiamare la mia collega, la quale arriva e mi da il benvenuto, accompagnandomi al piano della scuola, dove non ci sono reparti ospedalieri, proprio per fare “staccare la spina” ai pazienti. L’ospedale nel quale si trova la scuola è dedicato a pazienti con lesioni del midollo spinale e il mio alunno è stato vittima di un grave incidente stradale, finendo in coma ed essendo operato un’infinità di volte. La mia collega è una persona accogliente e tranquillizzante e, quando arriva il mio alunno, mi accorgo che anche lui è così. Facciamo conoscenza, inizio a spiegare tedesco con la sicurezza di sempre e il mio alunno mi segue, mostrando passione e dandomi serenità. Finisce la lezione, il ragazzo se ne va, con qualche rammarico, perché avrebbe voluto continuare, ma anche con un po’ di dispiacere mio, perché mi fa sentire bene. Emana delle vibrazioni positive, che cerco di ritrovare nella natura splendidamente primaverile che circonda quell’ospedale, dove ha sede la scuola. Attorno al tavolo a cui stiamo seduti ci sono altri alunni e professori, che spiegano un sacco di materie: scienze, italiano, inglese,… Ogni tanto penso che forse anche gli altri insegnanti provano sensazioni simili alle mie. e penso che sia vero. Esiste ancora chi vive questo mestiere con sentimento. Altrimenti non lo farebbero, almeno molti di loro. Penso che garantire il diritto allo studio di chi sta soffrendo sia una ricchezza infinita e sia la riprova che la scuola pubblica, nonostante tutto, è ancora un’ancora di salvezza per la nostra società. Durante e dopo le lezioni mi godo le sensazioni, la sensazione di giovamento estremo che mi porta il rapporto con un ragazzo come lui. Penso che stia crescendo la sua conoscenza del tedesco, ma penso che, soprattutto, la mia anima sia beneficata da lui. Credo di avere assistito a delle lezioni, chiamiamole di resilienza, chiamiamole di vita. Ho assistito a delle lezioni di forza di vita e spero di essere stato almeno un buon allievo, almeno di avere la sufficienza, di non essere stato rimandato a settembre. Martedì scorso è stata l’ultima lezione, lui mi ha raccontato che da 7 mesi sta in ospedale e che vorrebbe presto ritornare a casa propria, molto lontano da quell’ospedale. Io gli ho fatto gli auguri e l’ho ringraziato per il giovamento che ho tratto da quelle lezioni. Si sta proprio bene con te, mi sono trovato veramente bene. Tu sei veramente una persona positiva. Lui mi ha ringraziato e mi ha detto, bisogna essere sempre positivi. Io ho sorriso, per tanti motivi, sicuramente, il primo è che sono stato fortunato ad avere un insegnante di vita come lui. Ha insegnato più lui a me di quanto io abbia insegnato a lui. Ho ringraziato anche la mia collega, per l’opportunità che mi ha detto. Ho sbloccato un po’ la mia timidezza, la mia ritrosia ad esprimere tutto quello che provo. Perché era giusto così, perché è stato bello così. W la vita! (Non avrei mai creduto che stare in un ospedale avrebbe potuto anche essere bellissimo)

Una storia di fiducia

Ho scritto questo racconto alcuni mesi fa. Sono stato orgoglioso di averlo scritto: racconta una bella storia, di fiducia e di amore. Mi ha fatto stare bene averlo scritto e spero che faccia stare bene anche voi.  (P.S. è TUTTO VERO)

a presto.

M.

UNA STORIA DI FIDUCIA

Questa storia è una storia di fiducia. Inizia in un ambulatorio: ci sono io, che sono un insegnante, sul lettino. Ho avuto problemi di salute, sono finito in ospedale ed ora sto subendo un controllo. Da qualche settimana ho ricominciato a lavorare. Con fare un po’ timoroso chiedo alla dottoressa, tra un po’ andrò in gita con gli alunni, dice che ci sono controindicazioni? La dottoressa mi guarda serena e mi dice, può andare tranquillamente Stefano, le farà bene. Aveva ragione.

Parto con tre classi terze di ragioneria, una delle quali mi ha come insegnante di tedesco. Andiamo a Praga. I ragazzi della mia classe sono magnifici, ci conosciamo bene, mi hanno chiesto loro di accompagnarli. Durante la gita conosco anche i ragazzi delle altre due classi e allaccio uno stupendo rapporto anche con loro. Quel viaggio mi fa bene, al corpo e all’anima. Mi fa bene la presenza dei ragazzi, mi fa bene la presenza dei miei colleghi. Grazie a loro, grazie al fascino, alla bellezza di Praga, i problemi di salute, con i brutti ricordi ad essi collegati, vengono travolti da un mare di vita, di belle vibrazioni e di sorrisi. Di quel viaggio amo tutto, perfino la partenza ad un’ora impossibile, le sette della mattina, da San Giovanni in Persiceto, in provincia di Bologna, a mezz’ora di macchina. È marzo, è ancora buio, nevica e mi sono alzato alle cinque. Ma sono felice. Partiamo in pullman, pieni di allegria e sonno. Il viaggio ha una tappa a Monaco di un giorno, c’è la neve anche lì, ma non importa. Con loro, con i miei ragazzi e con i miei colleghi è tutto perfetto.

Quando arriviamo a Praga veniamo accolti da un albergo bello ed accogliente, vicino al centro. Le giornate si dividono tra la partecipazione ad una fiera internazionale studentesca e la visita di Praga. Non è la prima volta che ci vado, ma le emozioni che provo sono uniche, ad esempio contemplando il Ponte Carlo, la Piazza della Città Vecchia o il Castello. C’è il freddo, un po’ di neve, ma il cuore e l’anima sono caldi, caldissimi. All’inizio di questa storia avevo scritto che questa è una storia di fiducia. E lo è. Un tardo pomeriggio è fissata una minicrociera in battello lungo la Moldava, il fiume che attraversa la città. La mia collega, che ha organizzato la gita, raccomanda assoluta puntualità, perché teme che il battello non attenderà i ritardatari. Il ritrovo è nella hall alle sei e trenta di sera. Mancano quattro ragazzi e la mia collega dice al resto del gruppo di andare, io mi propongo di rimanere in hotel per sorvegliarli, visto che sono minorenni. Il gruppo sale sul pullman che li porterà verso il fiume. Vado verso l’ascensore, che si ferma al pianterreno in quel momento. Escono i quattro ragazzi. È trascorso meno di un minuto dalla partenza del gruppo. Dove sono gli altri, mi chiedono con aria preoccupata. Sono andati via, la collega esigeva puntualità assoluta. I ragazzi sono tristissimi. L’ascensore era bloccato da altri, sono solo le sei e trentuno. Avrebbero potuto aspettare un minuto. Ragazzi, la prof aveva detto che non avrebbero aspettato, replico io. Scusate, perché non proviamo a raggiungerli, propongo. Non ce la faremo mai, gli altri sono in pullman, mi rispondono con aria afflitta. Proviamo a chiedere alla reception quanto ci vuole in autobus. Vado alla reception e mi dicono che ci vogliono circa 10 minuti in autobus per raggiungere l’attracco del battello. Compro i biglietti. I ragazzi non ci credono, e se non ce la dovessimo fare. Ci faremmo un giro per Praga, rispondo io. Andiamo fuori dall’albergo e ci avviamo verso la fermata. L’autobus sta arrivando, proviamo a correre come matti per raggiungerlo, ma non ce la facciamo. Dobbiamo aspettare il successivo. Contattiamo la mia collega che ha organizzato la gita e le spieghiamo la situazione. Lei mi dice che avrebbe provato a chiedere al pilota del battello di aspettare, ma dubita. I ragazzi sono sempre più afflitti, e se non ce la facciamo. Se non ce la facciamo, faremo due passi, rispondo io, ma ci dobbiamo provare. Finalmente arriva l’autobus. Mi telefona di nuovo la mia collega, che mi dice che ci vogliono quattro fermate per raggiungere l’attracco. La fermata è oltre il ponte sulla Moldava, bisogna tornare indietro sul ponte e scendere una serie di gradini che portano al molo. Per strada non c’è tanto traffico e l’autobus raggiunge velocemente la fermata. Scendiamo e corriamo. Per fortuna sono allenato, vado in palestra. Ho il fiatone, però, quando mi chiama la collega. Dove siete, mi chiede. Sul ponte. Fate presto, il comandante del battello si sta innervosendo, perché vuole partire. La strada è ormai corta e la chioma bionda della mia collega si intravede davanti al battello, scendiamo i gradini, di corsa. Saliamo sul battello. Ci sono una cinquantina di ragazzi che gridano ritmicamente il mio nome. Applaudono. Io sono felice e stupito. Non mi sembra di aver fatto nulla di che, proponendo di tentare. I ragazzi che ho accompagnato al battello si avvicinano a me, grazie prof, per avere avuto fiducia. Se non fosse stato per lei, ci saremmo già arresi. Guardo le luci della città delle meraviglie, durante la gita delle meraviglie. È tutto perfetto. Viva la Vita.