Ad Acquasanta Terme la serata, con un menù dedicato, per ricordare l’ingresso dei militanti del Partito nazionale fascista nella capitale del 28 ottobre 1922. La città marchigiana è medaglia d’oro per la Resistenza, appello ai vertici del partito: “Condannino l’iniziativa, triste e fuori luogo” di PAOLO BERIZZI
Month: ottobre 2019
Prof, lei per me è come un secondo padre
Questo blog mi sta spiegando molte cose, o almeno me le fa vedere. Qualcuna la capisco. Amo tutti i post, perfino quelli un po’ più sconclusionati, ma qualcuno mi è rimasto di più nel cuore. è normale, sono più 1000. Poi finisce che guardo le statistiche di wordpress e scopro che un post, che per me è insignificante, da altri è adorato, o almeno è amato un po’. Mi rendo conto che questo blog non è solo mio, è anche vostro, è anche di chi gli vuole bene. Anche io gli voglio bene. Non è un vero diario, non ha un ordine cronologico, lo si può leggere come si vuole, senza un criterio. Vado a salti nel passato, più o meno passato. Scrivo di politica, poca, scrivo tanto di scuola. Rappresenta un momento, un pomeriggio, una notte, come questa, in cui il sonno sta per battermi. A questo post avevo voluto bene già prima di scriverlo.
L. è una ragazzona alta alta e robusta, con il viso da bambina e la voce potente. Ha un sorriso sincero ed aperto, le guance rubizze incorniciate dai capelli lisci neri fino alle spalle. è un mia alunna, si impegna tanto in tedesco, anche se non è particolarmente dotata. è una brava ragazza. nel vero senso della parola. Poco tempo fa mi corre incontro, all’entrata della scuola. Mi abbraccia e mi dice, prof, lei per me è come un secondo padre. Sono colpito, emozionato e felice. è una grande responsabilità, è tanto bello. Ho fatto qualcosa di buono, credo.
Come un libro che si scrive da solo
Questo post non riesco a finirlo. Un giorno non ho tempo, il giorno successivo manca la corrente, stasera ho molto sonno. Forse non avrà tanta logica, forse non avrà un preciso conduttore. Ma è uno sfogo, rappresenta qualcosa che deve uscire, un’esigenza di liberazione, di liberarsi da qualcosa, sempre e comunque, in ogni caso.
Come un libro che si scrive da solo, come un libro che si scrive da solo maluccio, con una sintassi incerta e qualche errore di grammatica. Questa è la storia di un lento tramonto, che va a finire dove deve finire, senza bisogno di uno sceneggiatore sagace, ma con un finale già scritto. Non è un finale lieto, ma non è nemmeno particolarmente tragico. è una storia che è capitata a scuola, ma sarebbe potuto capitare ovunque. è capitata a me, ma sarebbe potuta capitare a chiunque. Qualcuno lo chiama mobbing, qualcuno lo chiama stronzaggine, qualcuno lo chiama maleducazione. Le vittime di questo fenomeno possono andare incontro alla depressione, c’è persino chi si suicida. Io non mi suicido, sono abbastanza forte, non credo nemmeno di essere depresso.
Siamo nella pianura, in un paese che non fa nemmeno comune. è una frazione all’estremo est della provincia, al confine con la provincia successiva. Per arrivarci, dalla città, ci vogliono 45 minuti con l’automobile, attraverso una statale, una provinciale e una strada stretta stretta, dove passa un’auto alla volta. Il percorso è spesso avvolto dalla nebbia, in un tutto indistinto grigio. Quando passo per la strada stretta stretta e c’è la nebbia, c’è quasi sempre, io ho paura. Ho paura di finire nel fosso oppure di cozzare contro un’altra macchina. Vado piano, qualche volta impreco, mi distraggo con la musica. A volte canto, male ma canto. Per me andare al lavoro è un rito solipsistico. Ho bisogno di tempo per stare con me, per collegare pensieri e sensazioni. Non potrei andare con i mezzi. Servono tre autobus per arrivare in quel paesino dimenticato dal mondo. Dovrei alzarmi troppo presto e un po’ mi pesa. Qualche malalingua potrebbe insinuare che io sia un po’ egoista. Se tutti ragionassero come me, l’inquinamento aumenterebbe a dismisura. E forse quella malalingua avrebbe anche un po’ ragione. Forse comincia a pesarmi anche questo lavoro, perché c’è aria cattiva, c’è aria chiusa in quella scuola. O forse no.
Faccio l’insegnante di sostegno e sono in aula con altri insegnanti, molti dei quali assomigliano solo vagamente ad un insegnante: sono brutti dentro, confusi e pericolosi. Sono annoiati, sono tristi, e frustrati. Io sono allegro, invece. A me piace quel lavoro, a loro no. E si vede. Ho tanto da dare e tanto da raccontare. Ho anche un aspetto curato, che corrisponde al mio ordine mentale e al mio benessere interiore. A loro, a questi insegnanti faccio paura. Che strano, non dovrei fare paura a nessuno. Ho un’aria rassicurante e serena, spesso sorrido. Faccio paura proprio per quello, già. Rappresento quello che loro non sono e non potranno mai essere. Sono cupi, maledicono quel dio cattivo che li ha destinati ad una sorte per loro triste. Sono impreparati, le loro ore sono uno strazio di insipienza e ignoranza. Come si fa ad esorcizzare un pericolo, cioè il sottoscritto? Si inizia con il non salutarlo o salutandolo con malavoglia. Bisogna fargli capire che lui non ha identità, che lui non c’è, anche se c’è. Il sottoscritto è un insegnante di tedesco con esperienza e la cosiddetta insegnante di tedesco che è in classe se ne strafrega di lui, rifiutando ogni collaborazione, nonostante lei si trovi in grande difficoltà didattica e disciplinare. L’insegnante di musica, chiamiamola così, non lo ritiene nemmeno degno di autorizzare gli alunni ad andare in bagno. E non sono i soli esempi. Ma torniamo all’insegnante di musica, chiamiamola così. Un giorno di primavera siamo nel cortile di cemento della scuola. Il verde è poco e malridotto. Una bambina di quella classe si avvicina all’insegnante di sostegno. Sorride, gli va a pochi centimetri dal volto. Gli fa un tremendo rutto in faccia. L’insegnante di sostegno rimane basito e avverte la “collega”. La “collega” gli risponde, davanti a degli alunni, davanti a dei ragazzini di 11-12 anni, che non è affar suo e che di quella mancanza di rispetto non gliene importa nulla. Il suo obiettivo era umiliarmi, sicuramente. Non c’è riuscita, non mi ha traumatizzato. Quella notte ho dormito lo stesso. Quella collega ha trasmesso un insegnamento, se così lo vogliamo chiamare, a dei dodicenni. Che ad un insegnante di sostegno si può ruttare in faccia impunemente. Che un insegnante, che una persona può non meritare rispetto, in base all’arbitrio di qualcuno. Questa può essere la scuola pubblica. Che non è più pubblica. Perché cerca di escludere qualcuno, di farlo sentire meno degli altri, di farlo sentire niente. Quel qualcuno sono io. Ma soprattutto è una scuola che diseduca, che fa del male a dei ragazzini, che non educa dei cittadini.
Ma trasferiamoci di pochi chilometri. In un grande edificio pieno di luce, in paese, ma vicino alla campagna, ci sono sempre io. Siamo in una scuola superiore, in un luogo santo e benedetto dalla vita di cui ho già parlato. C’è un preside saggio e lungimirante, il quale, prima mi propone di fare da interprete di russo davanti a centinaia di alunni e prof e poi mi propone di tenere un corso di russo in quella scuola. Sono felice anche solo per la proposta e accetto con entusiasmo. Vengo a sapere che il numero minimo di partecipanti per avviare il corso è di 15 e penso che non partirà mai. Ma sono felice lo stesso. è una grande dimostrazione di fiducia nei miei confronti e questo basta. Passano i giorni e scopro che gli iscritti sono 20. Il corso si farà. Loro sono ragazzini normali, non dei nerds. Sono ragazzini che hanno una vita, il fidanzato, la discoteca. Sono ragazzini che vanno per lunghe ore a scuola e che, un giorno alla settimana, invece di andare a casa, mangiano un panino al volo e studiano russo per due ore, dopo 6 ore di scuola. Molti di loro sono miei alunni di tedesco e mi dicono che si iscrivono solo perché l’insegnante di russo sono io. Una mattina in corridoio il preside mi ferma, per farmi i complimenti e poi mi dice, si comunica quello che si è. Sono felice e orgogliosissimo, faccio un sorriso di soddisfazione e appagamento. Penso anche che sia una vittoria per quei ragazzi, entusiasti e belli. è anche una vittoria per la scuola pubblica, sì, una piccola grande vittoria.
Stasera alle 22 06 del 22 ottobre sto per dare il via libera a queste parole. Hanno occupato alcune delle mie ore ed entreranno nelle vostre. è stata una gestazione un po’ lunga, non so se difficile. Stasera fa molto caldo, anche se è ottobre. Indosso un paio di pantaloncini e una maglietta. Ho sonno e una piccola soddisfazione: vi ho raccontato qualcosa. A presto.
M.
Sole e ombre
Forse questa vicenda l’ho già raccontata, non mi ricordo più. Ma devo aggiungere una riflessione. era l’11 ottobre di due anni fa, il sole era tiepido e gentile, proprio come piace a me. Qualche giorno prima avevo saputo che sarebbe arrivata una giornalista russa nella scuola in cui ero, luogo santo, benedetto dalla sorte. Il preside è un uomo saggio, sa della mia conoscenza del russo e mi chiede di fare da interprete. Sono onorato ed emozionato, anche un po’ impaurito. Parlo russo, sono laureato in russo ed ho già lavorato come interprete. Ma ogni volta è sempre una prova, ogni volta è sempre la prima volta. Ascolti una voce, una voce che può avere anche un accento difficile, a volte poco comprensibile. Parlo bene il russo, così mi dicono. Nell’interpretariato consecutivo hai pochi secondi per pensare. Non puoi sbagliare e devi tradurre. Devi trasporre nella tua lingua e nell’altra lingua dei pensieri, delle emozioni. Arrivo davanti a scuola e vedo una mia alunna. Mi assalgono mille dubbi. A volte penso che sarebbe meglio che non ci fosse quell’evento. Ho delle ore di potenziamento, delle ore di disponibilità in quel luogo santo e il preside decide di utilizzarle per farmi fare l’interprete. è un’altra parte di me, è quello che so fare, devo essere contento. Avrei delle ore di lezione quel giorno e il preside decide di sostituirmi. La classe di quell’alunna che ho incontrato esce un’ora prima. Entro nell’aula magna, fatta ad anfiteatro. Tutto è moderno, trasparente, vetrato e luccicante. C’è un palco, con un tavolo per gli oratori, dietro al quale devo sedermi. Vedo la giornalista, la saluto e le rivolgo la parola. Parla un russo pulito, con dizione quasi attoriale. Le chiedo di parlare lentamente, di pronunciare frasi brevi e a voce alta. Lei è d’accordo. Inizia l’incontro e il saggio preside presenta la giornalista e il sottoscritto, definendomi una grande risorsa per l’istituto. Sono strafelice ed emozionato. Speriamo che vada bene. Davanti a noi ci sono duecento circa tra insegnanti ed alunni, venuti ad ascoltare lei, ma anche me, anzi, soprattutto me, perché nessuno di loro conosce il russo. La giornalista è un’oppositrice di Putin, che ha trascorso 8 anni di carcere, perché accusata di terrorismo. Lei si proclama innocente. Ma non è quello il punto. Le mie parole escono fluide, chiare, precise. Sono sicuro, strasicuro, mentre lei racconta la propria esperienza in carcere. Termina l’esposizione e partono le domande del pubblico, che io devo tradurre. L’incontro termina, ma è solo il primo turno. Vengo circondato dal preside, da colleghi e alunni, strabiliati per la mia conoscenza del russo. Mi fanno complimenti. E io sono felice. Inizia il secondo turno, entrano altri duecento tra alunni e studenti. La storia si ripete, felice e piena di gloria. La mattinata termina, saluto tutti ed esco, baciato dal sole gentile di ottobre. è una pagina bella, bellissima, di vita e di scuola.
Trascorrono alcuni giorni e una mia collega mi incrocia per i corridoi con i libri di testo in mano, mi chiede, con aria perplessa, ma tu lavori qui, io pensavo che tu fossi un traduttore esterno. No, no, lavoro qui, le dico, mentre passo da una classe all’altra per fare lezione. Uno bravo come te cosa ci fa a scuola, mi chiede, negativamente stupita. è una collega esperta e brava, pensa queste cose della scuola.
Passano gli anni. Siamo a ieri. Sono all’alberghiero. Fuori non c’è il sole. Sono in sala insegnanti a leggere il giornale nell’ora di disponibilità, come faccio molto spesso, e una bidella arriva, professore, potrebbe dare un’occhiata ai ragazzi di seconda per venti minuti, visto che il prof di cucina deve uscire prima. Ho studiato, imparato, accumulato anni di esperienza e vengo messo a fare quello che potrebbe fare benissimo un bidello. (con rispetto parlando)
Non ero quello bravo?
Raggi di luce
Pochi giorni fa un’alunna mi è venuta incontro per abbracciarmi, voglio dare un abbraccio al mio prof preferito, ha detto. è volenterosa, anche se scarsamente dotata in tedesco. è una brava ragazza, positiva ed educata. Qualche raggio di luce c’è.
Questa mattina ho consumato carburante, meno male che ho il gpl, e finanziato la società autostrade con ben 2 euro e 60, come faccio due volte al giorno, per cinque giorni a settimana. Questa mattina l’ho iniziata con una sostituzione e continuerò con due ore vuote. Dalla settimana prossima potrei fare meno sostituzioni e più lezioni. Ma la polvere è tanta, la polvere accumulata sulla mia anima è veramente tanta. Cercherò di dare il massimo, di sicuro ci proverò, anche se il luogo in cui sono è demotivante. All’istituto alberghiero ci va, spesso, chi non ha voglia di studiare, pur di completare l’obbligo scolastico. Io sono abituato ai licei e a ragioneria. Dovrei fare venire a questi ragazzi almeno un po’ di voglia di studiare tedesco, almeno un pochino. Se le ore di sostituzione non mi demotivano troppo. Ma non ci sono solo le supplenze, ci sono anche i progetti. La scuola è ammalata di “progettite”. Si organizzano progetti con esperti esterni, a volte anche discutibili, a volte anche interessanti. I progetti vengono organizzati sempre nelle ore scolastiche, bloccando l’attività didattica, come anche l’alternanza scuola lavoro e robe simili. Penso che quest’anno sarà molto lungo, troppo lungo. Da un lato non vedo l’ora che finisca, dall’altro so che senza scuola, almeno durante l’anno scolastico, starei peggio. Confesso che in estate non mi manca affatto, perché sono troppo preso dai mie viaggi e dagli altri mille impegni.
In questo momento fa un caldo boia e non si respira. Sarà più una condizione fisica o psicologica? Mah… Meno male che tra poco finisce l’ora di sostituzione o di badantato.
M.
Questa mattina
Questa mattina ho impiegato 56 minuti di automobile per 41 km all’ora. Ho attraversato la città e percorso un tratto di autostrada, quella che porta verso il mare. Ho liberato sostanze inquinanti con la mia auto, ho occupato spazio e creato ingombro nel traffico. Ho ascoltato Marisa Monte e Ligabue, sono entrato a scuola a compulsare un foglio mal scritto a mano, che contiene l’elenco delle sostituzioni. Mi sono alzato presto e ho bevuto un caffè per combattere il sonno, sono stato spedito in due classi a badare degli studenti che non studiano il tedesco e poi avrò altre due ore a disposizione. “A disposizione” è un eufemismo un po’ idiota per celare la verità. Mi sembra di essere un giocatore sfiatato e con le ginocchia rotte, che sta in panchina in una squadretta di b, a fine carriera. E non sono sfiatato e le mie ginocchia non sono rotte. Mi sembra di essere in un cimitero degli elefanti, sepolto insieme ad altri docenti “a disposizione”. Mi sembra ieri, anche se, a volte, mi sembra un mondo lontano, quando davo il meglio di me stesso nella scuola di due anni fa e le giornate procedevano caotiche e positive. Penso alla colonna sonora dei miei viaggi, che erano più brevi. Penso alla colonna sonora più rock, più reggaeton. Questa mattina ho ascoltato Diana Krall ed è stato bello e rilassante, in fin dei conti non avevo bisogno di energia, avevo bisogno di relax. Penso ad un mondo lontano e penso al fatto che vorrei il sabato libero. Per ora, con l’orario provvisorio, ho il sabato libero. Spero di averlo anche con l’orario definitivo. Penso che questi sono i miei principali desideri e mi metto in lista d’attesa per un noto ristorante stellato. Penso che il 23 del mese riceverò un sontuoso bonifico di 1500 euro. Per lasciarmi così tante ore a disposizione, l’anno scorso e quest’anno, lo stato avrebbe potuto risparmiare denaro. Ma non l’ha fatto. Meno male che fuori c’è il sole.