per i miei cari amici, un po’ di mie foto
Month: agosto 2016
un po’ ridicolo 2/seconda e (speriamo) ultima parte
Prendo carriolate di antibiotico (mamma mia, mi ricorderò amoxicillina e acido clavulanico nei sogni), ma la cena in uno dei più bei ristoranti di Roma, in cima a Monte Mario, è una consolazione non da poco. Ho un completo gessato e gli scarponi da infortunato. I giorni passano più sereni, o meno agitati. Ho fissato la seconda e la terza medicazione. Per la seconda medicazione mi attende un’infermiera sulla cinquantina, con i capelli corti e la faccia piena. Ha le mani delicate e leggere. Mi dice che non devo prendere il sole finché la gamba non sarà guarita, mi dice di massaggiarla e di prendere l’antibiotico, di massaggiare il piede con una crema all’aloe vera. Pensa che io non abbia più bisogno dell’ultima medicazione.
Le chiedo sommessamente se posso ricominciare a fare zumba, aspettandomi una sonora risata in faccia. e invece risponde di sì, mi dice di stare attento, di fermarmi subito, in caso di dolore. Stento a credere a quello che mi ha detto. Ci penso tutto il pomeriggio, mentre lavoro. La sera vado a fare zumba, ho un po’ di paura quando mi infilo le scarpe, ne ho tanta. Ho una paura fottuta, ma il dolore non c’è. Mi scateno. è andata bene.
In quei giorni vengo visitato anche da una mia cliente che fa il medico. Mi dice che il mio piede è in via di guarigione, ma che non devo prendere il sole. Mi dice che ci vorrà tempo, prima che guarisca del tutto, cioè che si sgonfi completamente e smetta di essere così rosso, anche fino a settembre.
Vado in viaggio a Vienna, ora sono al mare. Ho un colorito spettrale (non posso prendere il sole), dovrei andare dal barbiere, perché non mi piaccio così, il piede è un po’ gonfio ancora. Ho avuto diversi incubi, delle notti ho dormito male, ma ora va meglio.
Perché ho scritto questi due post? Perché la scrittura guarisce, mi era già capitato anche molti anni fa.
P.s. quando la dottoressa giovane è un po’ arrogante, per farmi paura, mi dice che mi vuole ricoverare, tra le altre motivazioni, le dico che non voglio, perché devo andare a scuola. Ma lei replica, ma se le scuole sono finite. Ma io devo tenere un corso di recupero. è tutto vero. scuola infinita.
un po’ ridicolo
capisco di essere un po’ ridicolo, o molto ridicolo, a seconda dei punti di vista, ma quello che mi è successo, tra la fine di giugno e luglio, mi ha segnato pesantemente.
è un sabato molto caldo, sto per partire per Padova, per andare a cena in un bel ristorante. faccio la doccia, dopo di che noto sulle mie caviglie un rossore strano. noto che sono un po’ rosso sotto l’ascella destra. non sono particolarmente preoccupato, ma decido lo stesso di andare in farmacia. nella prima farmacia il commesso non mi sa dare risposta, nella seconda mi da una pomata, di cui mi sono già scordato il nome. vado a Padova, mi sono scordato di portarmi una camicia. vado al centro commerciale a comprarne una. alla sera sono a cena in un ristorante elegante, tre stelle Michelin. La cena è fantastica, ecc. ecc. Vado a letto. Il giorno dopo è ancora più caldo, vado in giro per Padova con i pantaloncini. sudo molto e mi affatico. torno a casa.
il mattino dopo mi ritrovo le gambe coperte da “ustioni”, dalle ginocchia fino al piede compreso. non mi fanno male. devo andare a scuola, a una delle riunioni preparatorie per l’esame di maturità. dalle “ustioni” esce del siero. chiamatemi idiota e incosciente, potete farlo, ma aspetto la fine della riunione per andare in farmacia. vado in farmacia, spiego la faccenda e mi danno della connettivina, con garze e la rete. vado a casa e mi medico. Mi addormento un’ora.
Vado in palestra al pomeriggio e le gambe fanno un male cane (resisto fino alla fine, chiamatemi stupido, fate bene). Il giorno successivo torno in palestra e le gambe fanno male, ma un po’ meno. La connettivina produce un po’ di effetto, meno male. Passano i giorni e le ferite alle gambe se ne vanno, anche se rimangono le ferite ai piedi. Mi sento disorientato, non mi sento più io. Il mio corpo è deforme, le gambe sono gonfie, un po’ meno dei primi giorni. Avverto anche meno il piacere del cibo. Vuol proprio dire che non sono più io. Per due giorni ho nausea e pressione bassa, vuol dire che non sono più io.
Ricomincio ad andare ad allenarmi, dopo qualche giorno. Le gambe fanno un male cane, anche se non ho più ferite. Sabato non ho molte energie, mi sento un po’ fiacco. Vado a fare la spesa. Vado al ristorante, ma non mi diverto e mangio con meno appetito. Torno a casa e mi levo le scarpe. I piedi sono pieni di piaghe e vesciche purulente, gonfi come meloni. E ancora non vado al pronto soccorso. Passo la domenica con due miei conoscenti un po’ strani. Andiamo ad un centro commerciale, io ho le ciabatte e qualcuno mi addita. I miei piedi sono intrisi di liquido. Al lunedì sto chiuso in casa, vado all’edicola vicina con l’automobile, molto presto. al martedì faccio la stessa cosa, così come al mercoledì, ma non ce la faccio più. vado in farmacia, sperando che la farmacista mi prescriva qualcosa, ma, giustamente, mi dice di andare all’ospedale. Faccio fatica a camminare, con quel siero che esce dalle vesciche.
sono sempre più disorientato e triste. al pomeriggio vado da mia madre, pensando che mi possa aiutare in qualche modo, o medicare in qualche modo. Sto pensando di andare all’ospedale seriamente. Sarà anche il caso, visto che i miei piedi, specialmente il destro, sono ridotti da schifo. Mia madre è una donna ansiosa, come tutte le mamme, mia madre forse un po’ di più. fa una tragedia, mi mette ancora più ansia. Sarei dovuto andare all’ospedale da solo. Mi accompagna all’ospedale, con la sua macchina scassata. sono rassegnato ad andarci, ma con lei faccio finta di non esserlo. chissà perché. vado al triage, dove spiego tutto ad un’infermiera disattenta. Mi attribuiscono il codice verde.
Ci sono tante persone, molti anziani, in quel luogo. Guardo nel vuoto e guardo il cellulare, mezzo scarico. Non ho neanche niente da leggere. Non sono più io. C’è una signora di una certa età, vuole parlare. Mia madre è rimasta fuori in macchina. Mi racconta che ha prurito ad un fianco. Mi chiede che cosa ho io. Parlo. Sto un po’ meglio psicologicamente. Torna mia madre, con lo sguardo sconvolto. Mi critica per cose che non c’entrano niente. Ho ancora più ansia. Ci sono anziani sulle lettighe, ragazzi. Mia madre torna fuori, a pagare il tagliando del parcheggio.
Le ore non passano mai. Un’infermiera chiama il mio cognome, la seguo velocemente. Entro in un ambulatorio dove c’è una dottoressa giovane e un po’ arrogante. Le racconto quello che mi è successo e mi prende per bugiardo. Sarò stato stupido, ma bugiardo no. Mi sdraio sul lettino. La dottoressa mi fa paura, dicendo che mi vuole ricoverare. Io rispondo atterrito che non voglio, mi dice, ma lei rischia di perdere le gambe. Lo fa apposta per farmi paura. Lei deve sottoporsi ad una terapia antibiotica, deve fare l’ecodoppler e andare dal dermatologo. Mi lavano le ferite. Mi bendano le gambe e i piedi fino alle ginocchia. Le devo fare un prelievo. Era dal 1996 che non lo facevo. (sono strano, lo so). I lettori mi perdoneranno se non abbondo in particolari su questo aspetto del racconto, ma ho il terrore e il ribrezzo per quell’argomento e non vorrei rimettere sul computer. Sappiate che ho tenuto un ottimo comportamento, da bravo ometto. La dottoressa arrogante mi dice, le darei una botta in testa, per aver aspettato dal 27 giugno al 13 luglio. Ha ragione.
Arriva un’altra dottoressa, con l’aria tranquilla. La dottoressa un po’ arrogante mi prende in giro davanti alla collega e se ne va, è il cambio turno. La dottoressa un po’ arrogante mi ha chiesto perché sono andato all’ospedale. Le rispondo, per colpa del liquido che mi esce dai piedi. La dottoressa giovane e un po’ arrogante se ne va. La sua collega mi finisce di bendare e mi fa salire su una lettiga. Mi trasportano in un open space, assieme a tanti altri malati, soprattutto anziani. Solo una tenda mi divide dal malato di fianco. Sono di fianco all’entrata. Entra un ragazzo, vittima di un incidente stradale, tutto fasciato, tranne la faccia. Sto male, ma non per i miei piedi, per quello che vedo. Una signora anziana si lamenta, ha fame, deve andare in bagno. Un signore anziano chiama la badante, che era andata a fumarsi una sigaretta. Aveva paura di aver perso i soldi, li aveva lei. Li conta davanti a lui. Gli racconto come li ha spesi. Ha provato a chiamare i parenti dell’uomo, ma non rispondono. Passa un’infermiera e le chiedo che ne sarà di me. Non mi sa dire niente. Passa la dottoressa e mi dice che deve aspettare i risultati degli esami. Sollevo le gambe, abbasso le gambe. Sono le 22 e la dottoressa mi dice che posso andare. E chi mi libera dalla flebo? Arriva un’infermiera, mi sfiora il piede, per fortuna che non ho dolore. Mi toglie la flebo, con poca delicatezza. Ho i piedi fasciati ed esco dall’open space. Vuole che le chiami un taxi, mi dice l’infermiera. Aspetti che controllo se c’è la persona che è con me. Mia madre è rimasta lì, da 7 ore. Esco dal pronto soccorso, con i piedi fasciati e avvolti in copri scarpe, lo sguardo sconvolto. I valori delle mie analisi sono buoni, però, la glicemia un po’ alta, ma non preoccupante. Vado a casa e mangio male. Mi lavo e vado a letto. Il giorno successivo mi avrebbe atteso l’eco doppler e la visita dal dermatologo. Alle quattro del mattino apro gli occhi e non riesco più a dormire. Ho ancora negli occhi le immagini di quello che ho visto.
Vado all’ospedale e mi fanno la visita angiologica. Non ho trombosi, meno male. La dottoressa e l’infermiera sono ritardatarie, ma gentili e premurose. La dottoressa mi dice che ho i muscoli robusti e che si vede che faccio sport, soprattutto per il cavo popliteo. Dice che devo camminare molto. Ho una forte infiammazione e questo si sapeva. Mi fascia di nuovo e mi tocca andare dal dermatologo. Il dermatologo mi dice che non ho l’infezione, ma ho un eczema da stasi. Il dermatologo non guarda nemmeno l’ecodoppler. Maneggia le mie gambe, come se fossero un pezzo di carne morta. Mi fa un impacco di acqua borica, brucia da matti. Dice che devo stare quasi fermo, con le gambe in posizione di scarico, tenute verso l’alto. Ho in programma, per quel fine settimana, due giorni a Roma. Esco e mi compro le scarpe da infortunato, costano 140 euro, ammazza. Devo sottopormi a medicazioni all’ausl. Mi deve fare l’impegnativa il mio medico di famiglia, un perfetto stronzo. Ritorno alla vita solita. Il mercoledì successivo inizio le medicazioni. C’è un’infermiera giovane, ma poco delicata. Mi fascia troppo stretto e mi fa male. Mi faa un po’ di ramanzina, per la glicemia un po’ alta, ma non preoccupante. Mi dice che, se mi fa male, posso togliermi le fasciature. Torno a casa e mi tolgo le fasciature. Vado in palestra, dove mi alleno con le ciabatte. Non ho più vesciche e alleno solo petto, bicipiti e addominali. sono andato a Roma, lo spirito e il corpo ne hanno guadagnato. Adesso devo andare a fare la spesa. continuo più tardi. Non vi preoccupate che finisce abbastanza bene.
No al referendum costituzionale
Questo blog è per il no al referendum costituzionale. Siccome io sono laureato in lingue, insegnante e traduttore, ma non costituzionalista, inserisco un link ad un articolo del professor Zagrebelsky, che ci chiarisce i motivi per cui è giusto votare no al referendum di autunno.
solidarietà attiva
A partire da oggi alle 15,00 fino alle 21,00 e domani dalle 9,00 alle 11,00 presso il circolo Prc di Anzio in Via O. Fratini 8 è stato allestito un centro di raccolta di beni di prima necessità da destinare alle vittime del terremoto del centro Italia. In particolare occorre portare: coperte, abiti in buono […]
razzisti (questa volta non è una storia inventata)
Io sono una persona pacata, raramente mi arrabbio. sono una persona disponibile e bene educata, penso la maggior parte delle volte. pubblico un post su fb in cui derido il duce e una mia conoscente inizia a scrivere che in Italia gli italiani sono svantaggiati, che gli immigrati sono ricchi, che non pagano le tasse, ecc. cioè le ennesime cazzate razziste. Io rispondo pacatamente, confutando le vaccate che leggo e questo ripete le stesse cose come un disco rotto per due, tre, quattro post, ai quali io rispondo pazientemente, dimostrando e ragionando. Da quasi un giorno non sto rispondendo, ma lo farò domani. Troppo spesso ho la tentazione di rispondere, ma basta con ste stronzate razziste, vi siete bevuti il cervello, ecc. ecc. leggete, informatevi, ma, invece di arrabbiarmi, ho sempre tanta pazienza, troppa. però mi sento un fesso ad averne, mi sento frustrato.
e se fosse – tre
era troppo tempo che il nostro protagonista non insegnava. quasi non si ricordava più di avere presentato domanda per l’inserimento nelle graduatorie di terza fascia, si chiamano così le graduatorie degli insegnanti più sfigati, più precari, per usare un eufemismo. quando entrò nella scuola che l’aveva chiamato, si accorse di essere nel posto giusto. aveva fame di sguardi, di voci, di suoni, aveva fame di quegli sguardi, di quelle parole, di quei suoni. riprese il proprio mestiere, quello che sognava di intraprendere fin da bambino e che aveva svolto fino alla disgrazia. era carico ed esperto, come un ballerino che sa a memoria i passi di una danza e che deve preoccuparsi solo dell’interpretazione. la giornata durò a lungo, lui fu soddisfatto. non volle pensarci durante il viaggio in macchina verso casa. solo musica, solo ed esclusivamente musica, la sua musica, la sua playlist di spotify. sia benedetto chi lo ha inventato.
al pomeriggio si mise a lavorare con grande spinta, fino a che non arrivò il momento di andare in palestra. tornò a casa e scoprì un’atroce verità: si era scordato di ordinare il cibo dal sito di eataly. adorava eataly, da quando aveva smesso di frequentare il centro commerciale tutti i giorni. visitava il negozio in centro città e ordinava dal sito. in casa non aveva quasi nulla da mangiare, pioveva di brutto ed era stanco morto. fissò per un po’ di tempo il monitor del computer con aria sconsolata. driin, di nuovo il campanello, che palle, pensò. si alzò stancamente dalla scrivania e andò alla porta. chi è? sono Marco, oddio di nuovo il ragazzino di ieri sera. mica ci sono i tuoni, pensò. aprì la porta, il ragazzino era in pigiama, con i capelli neri lisci sciolti, i piedi scalzi. come la sera precedente. ciao, vuoi venire a mangiare da me. il nostro protagonista gli chiese, c’è anche tua madre in casa. era in imbarazzo, perché non aveva nemmeno una bottiglia di vino da portare. no, sono solo, mia mamma è a lavorare, mi ha detto di invitarti, visto che sei stato così gentile ieri sera. ok, vengo, rispose, aspetta un attimo, prese le chiavi di casa, un barattolo di crema di nocciole artigianale molto meglio della Nutella, si infilò le scarpe e seguì il ragazzino, che aveva fatto un gran sorriso, dopo che il vicino di casa aveva detto sì all’invito. entrarono nella bella casa, si entrava direttamente in un ampio salone. la tavola era apparecchiata per due, molto ordinatamente. il nostro protagonista si andò a lavare le mani e ritornò in sala. ti piace il pesce, gli chiese il ragazzino con aria speranzosa, spalancando gli occhi neri grandi e belli. sì, rispose l’uomo, mi piace. ti ho preparato una tartare di tonno rosso. il nostro protagonista replicò un po’ stupito, tu hai preparato la tartare. sì, mi ha insegnato la mia mamma. andò in cucina e gliela servì. era squisita, il nostro protagonista gli fece i complimenti. quel ragazzino con il pigiama bianco con gli orsacchiotti sembrava uno chef. pensò che la madre lo segregasse in cucina e lo costringesse a cucinare per ore e rimase un po’ perplesso. cucini spesso, gli chiese, qualche volta, la domenica, rispose il ragazzino tranquillamente. vado in cucina a controllare il risotto. risotto, fece sempre stupito il nostro uomo. ho preparato un risotto ai frutti di mare. addirittura, tutto questo per me, sorrise il nostro protagonista. era il minimo che potessi fare. quando servì in tavola il risotto rosso ai frutti di mare, il nostro protagonista si accorse che i frutti di mare erano sminuzzati. il risotto ai frutti di mare era un trionfo di sapori pazzesco, leggero e delicato. sarebbe sembrato quasi un tentativo di seduzione, se non l’avesse cucinato un bambino, un bambino vero, non una di quelle patetiche figurette da talent o reality show. lo guardò negli occhi e gli disse, complimenti. il bambino arrossì e sorrise, grazie. Mangiarono tutti e due quasi in silenzio, pensando solo a quello che stavano mangiando. Non è finita qui, disse Marco sorridendo, ci sono anche le cappe sante. Ma dai, disse l’uomo, sempre più sorpreso. erano deliziose, cucinate come solo pochi avrebbero saputo fare. Stavolta non mi freghi, disse con aria trionfante il nostro protagonista, il dolce l’ho portato io. il bambino rise, per questa volta,… tirò fuori il barattolo di crema di nocciole artigianale. e come quello che prende la mia mamma, quello di eataly. ma dai, anche lei compra le cose lì. sì, vuole solo il cibo di eataly, da quando il suo negoziante preferito, si chiamava Ettore, si è ritirato a Cuba. il bambino andò in cucina, prese quattro rosette di pane belle grandi e le portò in tavola. Le tagliò, le farcì smodatamente di crema di nocciola e le porse al nostro protagonista. era vero, era molto meglio della nutella quella crema di nocciole. anche il nostro protagonista si sentì bambino, forse più bambino del bambino con cui era in quel momento. vuoi che ti aiuti a lavare i piatti, non era un asso, ma ci provava. no, non c’è bisogno, pulisco un po’ le pentole, poi ci pensa la lavastoviglie. vuoi il caffè, gli chiese mentre stava pulendo le pentole. no grazie, disse il nostro uomo gentilmente. si guardò attorno. vide dei quadri alle pareti e delle foto. In una c’era il ragazzino in pantaloncini e maglietta, con i capelli legati e le scarpette da danza bianche, assieme ad una decina di bimbe in body rosa. erano alla sbarra. va pure a danza, pensò, ma quando vive. ci sono altri bimbi in questo palazzo, chiese il nostro protagonista. sì, c’è la mia amica Teresa, del primo piano, giochiamo spesso, viene a danza con me, c’è anche Edoardo, del palazzo di fronte, è in classe con me e giochiamo a calcio assieme. pure a calcio, mamma mia, ma questo ha più impegni di un adulto, ma quando fa i compiti. di fianco alla foto di danza c’era una foto del bimbo in tenuta da calcio, assieme ad una bella donna dagli occhi azzurri, la madre. proprio quella mattina gli sembrava di averla vista, per qualche secondo a scuola, ma era di sicuro una sua impressione. incominciò a tuonare.
mia madre torna tardi dal ristorante in cui lavora, posso dormire con te, gli chiese Marco. Dai vieni, non scordarti di spegnere il gas e la luce.
tramonto sul Danubio (e se fosse -due)
dentro questa foto c’è molto, c’è una ricerca di calma, c’è una ricerca di senso. dentro questa foto c’è una ricerca di significato. il nostro protagonista guardava una foto come questa quando il ragazzino stava guadagnando l’ingresso della camera da letto. sembrava che avesse frequentato casa sua. si mise a letto e sollevò la coperta, quando disse al nostro protagonista, puoi stenderti qua di fianco a me e abbracciarmi. ho paura dei tuoni e mio papà lo fa sempre. ma io non sono tuo padre, rispose il nostro protagonista, il cui viso aveva assunto una colorazione rosso fuoco. ti spengo la luce. buona notte, mi dici come ti chiami, per favore, chiese al ragazzino. Marco, rispose il ragazzino mentre si stava addormentando. se ne andò nel suo studio, ma non riuscì più a lavorare e si mise a cazzeggiare su facebook. dopo un po’ si sentì in colpa, per quel ragazzino lasciato solo nella sua camera da letto, prese un orsacchiotto di peluche che aveva da quando era bambino e lo mise accanto a Marco. Marco era fin troppo bello, sembrava uno di quei bambini della pubblicità. era la prima volta che andava in casa sua e dormiva nel suo letto. prima di quel momento il nostro protagonista non sapeva neanche il nome di quel ragazzino e ricordava vagamente la fisionomia. sarà stata l’una di notte quando il nostro protagonista andò a coricarsi, di fianco a quel bambino. era un po’ imbarazzato, infatti dormì poco e con un sonno agitato. il giorno successivo si doveva alzare presto, avrebbe dovuto iniziare un incarico a scuola come prof. sua madre gli aveva sempre detto di trovarsi un lavoro serio, anche se quello di scrittore gli rendeva abbastanza per vivere meglio. ma come avrebbe fatto con quel ragazzino? la sveglia suonò e il professore andò, con gli occhi cisposi e sbadigliando, in cucina. Il bambino era sveglio e pimpante e stava preparando la colazione. aveva messo su il bollitore del te e apriva, con fare esperto, gli armadietti della cucina del nostro protagonista. Il bambino gli sorrise, fuori aveva smesso di piovere. il nostro protagonista pensava di stare sognando. Buongiorno, gli disse il bambino allegramente, ti ho preparato la colazione, contento? sì, grazie, sei molto gentile. Mangiarono assieme. che scuola frequenti, gli chiese il nostro protagonista. la scuola qua vicino,rispose il ragazzino faccio la quinta elementare. tu sei un professore, gli chiese. come fai a saperlo, replicò il nostro protagonista con aria sempre più perplessa. Ho visto i libri di scuola. che domanda stupida ho fatto, pensò il nostro protagonista, mentre il ragazzino si passava una mano sui capelli che gli erano andati sulla fronte, per tirarseli indietro. aveva dei bei capelli nerissimi e lucenti, gli occhi neri grandi e la bocca con le labbra carnose, le guance piene e il viso rotondo. Ti volevo ringraziare, rincominciò Marco, stanotte ho dormito benissimo, non ho avuto paura dei tuoni. posso tornare da te, se c’è il temporale, gli chiese spalancando gli occhioni. Il nostro protagonista rispose, se la tua mamma te lo permette sì. Grazie per avermi preparato la colazione, sei stato molto gentile. di nulla, non c’è di che. adesso ti saluto, devo andare a scuola, gli si avvicinò, gli diede un bacio sulla guancia e se ne andò. il nostro protagonista andò a lavarsi, si vestì e uscì sul pianerottolo. rivide Marco con la madre, presumibilmente, una giovane signora con i capelli castani, raccolti in uno chignon. buongiorno e grazie, gli disse la madre. non c’è di che, signora, rispose il nostro protagonista, cercando di guardare il nome scritto di fianco al campanello di casa. Mi chiamo Rossi, non ci siamo mai presentati. si diedero la mano. Il bambino aveva un giubbotto di pelle tipo bomber e i capelli raccolti in un coda, sotto una cuffia. guardò la propria madre sorridendo e le chiese, posso tornare da lui se c’è il temporale, posso vero. La madre rispose, se il prof è d’accordo. Ma come fa a sapere che sono prof, pensò il protagonista. di nuovo con le domande stupide, pensò il protagonista, glielo avrà detto il bambino. certo che sono d’accordo, non c’è problema, rispose il nostro protagonista. anzi, il suo bambino, non era certo che si chiamasse Marco o Edoardo, è stato molto gentile, mi ha anche preparato la colazione. Lo fa sempre, è fatto così, sorrise la madre. voleva intendere che il bambino aveva l’abitudine di infilarsi nelle case di sconosciuti per dormire nel loro letto, quando c’era il temporale, e preparare al mattino la colazione? che strano bambino. meno male che non gli aveva preso l’orsacchiotto, il nostro protagonista ci teneva, era un ricordo di infanzia. Marco andò a scuola con la mamma e il nostro protagonista andò a scuola un po’ perplesso.
e se fosse
se decidessi di raccontare una storia non del tutto vera, se decidessi di inventare qualcosa? se decidessi, per una volta, di inventare tutto? ho sempre raccontato la verità. oggi mento. via alla storia inventata, che come finisce non si sa.
c’è un uomo solo, solo solo, che vive da solo in un palazzo carino, non troppo bello, ma neanche troppo brutto. è un uomo bello, ma dovrebbe curarsi un po’ di più forse. sono le 10 di sera di una serata di autunno piovosa, c’è il temporale. si sentono tuoni e lampi. c’è un uomo che sta scrivendo un romanzo, non ha troppa ispirazione e sta quasi per andare a letto. la televisione è spenta, come quasi sempre accade. a volte l’uomo che fa lo scrittore si domanda se non sia il caso di vendere quella televisione, che lui guarda così poco e distrattamente. guarda l’orologio.
suonano alla porta, un suono insistito. si prende paura, non conosce nessuno nel condominio, non ama socializzare, è abbastanza timido. oppure gli altri condomini gli stanno molto sulle balle, perché sono ignoranti e fascisti. non ha familiari, o meglio, se ne frega di loro, cordialmente ricambiato. suonano alla porta e lui decide di andare a chiedere chi è, ma ha un po’ di paura. e se fosse un malitenzionato? in quel quartiere succedeva abbastanza poco. era curioso. fa pochi passi dalla sala all’ingresso. chi è? sono edo, risponde una voce di bambino. l’uomo apre la porta e si trova di fronte un bambino in pigiama bianco, con i capelli lunghi neri sulle spalle, ben pettinati, gli occhi neri grandi. avrà avuto circa 10 anni . ciao, sono edo, il figlio della nuova vicina di casa. ho paura del temporale, la mamma mi ha detto di suonare da te, perché ha detto che hai un’aria rassicurante. posso dormire con te? il nostro protagonista rimase un bel po’ stupito. lui aveva visto qualche volta la madre del ragazzino, una bella donna bionda e riccia, ma non le aveva mai parlato e aveva visto il ragazzino un paio di volte, alla mattina presto, quando stava andando a scuola e alla sera, con una borsa sportiva. è in casa la tua mamma, gli disse l’uomo. no, è uscita, lavora fino all’una, fa la cameriera. vieni, disse al bambino con aria perplessa. lo fece entrare in casa, ma avrebbe voluto scomparire.