Recentemente c’è stato nella scuola delle suore dove lavoro, l’open day. è la solita espressione inglese, che si usa per infiorettare un concetto abbastanza banale. La scuola rimane aperta, al sabato pomeriggio o domenica mattina, per consentire le visite di genitori clienti potenziali. Confesso di avere difficoltà, quando i miei clienti di traduzioni mi chiedono rassicurazioni in merito alla qualità dei lavori che effettuerò. Io rispondo, citando i nomi di alcune aziende importantissime e autorevolissime che si avvalgono dei miei servigi, per dimostrare che, se loro che sono loro si servono di me, vuol dire che non sono l’ultimo arrivato. Sul mio sito web professionale ho evitato gli autoincensamenti, che mi appaiono piuttosto ridicoli, a vantaggio di una descrizione asciutta e precisa. La scuola nella quale lavoro si descrive con slogan che appaiono molto simili a quelli del dentifricio, con tutto il rispetto per il dentifricio.
Ma non è di questo che voglio parlare. Voglio parlare di un disagio, del disagio che tanti avvertono, quando notano la differenza tra parole e cose. è quasi patologico. senti che qualcosa non funziona, smetti di essere te stesso. Io ho avvertito questo disagio qualche giorno fa. Ho le ore con le prime medie, i primi giorni li portavo in un’auletta, inutilmente denominata “aula di tedesco”, uno stanzino per le scope buio e polveroso, di 3 metri per 4. Sono 12, eravamo uno sull’altro, una povera bimbetta doveva tenere il quaderno sulle ginocchia. Dopo alcuni giorni la suora evasiva ci manda in un’aula libera, dove gli alunni stanno abbastanza comodi, problemi non ne ho. Ho persino il proiettore. Giovedì la prof di religione mi dice, puoi andare su tu in aula magna, perché io ho bisogno di quest’aula. Che dici alla prof di religione, alla scuola delle suore, sì. Dicesi aula magna una normalissima aula, con computer, proiettore, microfono e pianoforte, con le sedie, ma senza banchi. E i ragazzini dovevano fare il compito in classe. Alcuni ragazzini usavano una sedia vuota come tavolo, ma si storcevano la schiena e, allora si sono dovuti sedere per terra. Due ragazzine carine ed educate mi guardano e dicono, prof, ma non è giusto che facciamo il compito in questa condizione. Li guardo, mi vergogno anche se non è colpa mia, e allargo le braccia.
Sarebbe stato bello se in quel momento fosse passato un genitore interessato a visitare la scuola, per pensare di iscrivere il figlio lì. Sono quelli gli open day.
Caro Michele,
tocchi un tasto dolente, almeno per me. Io non potrei mai fare open day perché non so mentire e perché ho una mimica facciale più eloquente delle parole. Ho lavorato per 12 anni in un altro liceo scientifico della mia città in cui c’era tanto fumo e niente arrosto. Sono scappata perché non ne potevo più di tanti progetti che davano prestigio al liceo ma che in fondo erano poca cosa rispetto a ciò che sarebbe stato opportuno fare ma non si riusciva perché i progetti megagalattici portavano via tempo (non solo in classe, anche in riunioni pomeridiane interminabili). Recentemente una mamma, che probabilmente non sapeva della mia precedente esperienza, ha tirato in ballo le cose meravigliose-stupende-incommensurabili che si fanno nell’altro liceo. Io ho semplicemente detto che fra tanto fumo e niente arrosto preferisco un pezzetto di arrosto, fatto bene e non bruciacchiato, senza fumo.
La scuola sembra aver perso. Il senso di se’, per diventare un prodotto commerciale, una scatola vuota
Strano che non si sappia … strano che gli alunni non dicano niente ai loro genitori e, questi a loro volta non diffondano in giro la situazione…
Eppure è una scuola privata mi par di capire, no?
certo che lo e’. i figli parlano poco e male ai genitori, il rapporto che hanno e’ formale e non sostanziale
Mi sei sembrato un alunno in queste righe, seduto in mezzo ai tuoi ragazzi.
un po’ si’, e’ vero.